Premio Bologna in Lettere 2020 – Nota critica di Giusi Montali a La linea del davanzale di Francesca Ippoliti

Premio Bologna in Lettere 2020

Le note critiche agli autori segnalati della Sezione A (Opere edite)

Francesca Ippoliti, La linea del davanzale (LietoColle)

 

 

Francesca Ippoliti nella sua raccolta di esordio prova la voce, per ricorrere a una metafora oramai sgualcita o, se si preferisce, apprende a gestire il proprio mana, la peculiare energia vitale che si sprigiona dall’interiorità. Parlo di mana perché i titoli delle sezioni – Rituale; Il cerchio; Le proprietà della luce; I poteri – invitano a tenere conto degli aspetti antropologici della poesia, la quale rivela di avere un antico passato in comune con la magia, i riti e l’onirismo  (e penso al libro di Anita Seppilli, Poesia e magia). A partire da tale presupposto si possono interpretare i testi della Linea del davanzale, prevalentemente prose inframezzate da alcuni versi, come un accrescimento, un accumulo e infine un ammaestramento della forza vitale che deve perlomeno tentare di agire sul mondo, nonostante le sconfitte e le delusioni (“questo sfoggio inutile di una forza immensa, chiusa nei polsi e lungo la schiena. Una voce tesa a salire lontano dal ricordo – poi cadere, rotolarsi nella polvere”; “Sottoponi a verifica continua il limite della forza, lo sposti un centimetro più avanti, pensi una mossa diversa, la esegui a perfezione”; “La conquista del vuoto, la sera, sulle scale di casa. Ecco il momento, quando la potenza conta molto di più della gioia”; “la mia stessa forza | mi rende più opaca e tutto ritorna | obliquo e a tradimento”; “Ritrovo un’energia che conosco bene, una profondità”). Tale apprendistato avviene all’interno di uno spazio sospeso, protettivo (“stiamo nello stesso quadrato, disegnare | cerchi”), nel quale il lettore viene introdotto sin dalle prime pagine per divenire quasi spettatore di un rituale che deve avere luogo e che come tutti i rituali genera stati d’animo ambivalenti: terrore e desiderio si sovrappongono e con l’avvicinarsi del rito la paura diviene predominante (“Poi a un certo punto ho paura. Allora vi vengo a cercare tutti, vi afferro una manica, parlo a voce altissima e dolciastra”).

Del resto, il soggetto poetico è continuamente attraversato da sentimenti contraddittori, vuole e disvuole, ed esemplificative sono le tre citazioni poste in esergo: si va dalla volontà di rimandare il più possibile il momento di esporre le proprie ragioni (“Retardons autant que possible toute explication”, Francis Ponge) al riconoscere che il male consiste nell’esistenza degli altri e che l’io sarebbe quindi continuamente vessato e minacciato dall’alterità (“Le mal, c’est le rythme des autres”, Henri Michaux) per giungere infine al desiderio di sottrarsi al reale, proclamando di essere assenti (“I’m not here”, Radiohead). Ambivalenza del volersi affermare come individui – stiamo pur sempre leggendo dei testi che esprimono un’identità che ha preventivamente selezionato “un mondo, un modo, un tempo” – e  desiderio di annullamento (“Ci sarebbe un grande riposo, | senza distinzione tra giorno e notte”). Lo stesso accade per la solitudine a un tempo ricercata e temuta, una solitudine che però non rinnega lo scambio amorevole tra alterità ma ribadisce il desiderio di mantenere precise distanze affinché l’io non si annulli nel tu (“La solitudine è un principio di salute e tiene in piedi l’amore con le distanze giuste”;  “Mi interessa la tua capacità di stare da solo, la fioritura”; “in mezzo a tutti gli altri, cerco di immaginarmi una solitudine”).         

L’io poetico esprime continuamente sia l’esigenza di annullare le separazioni, stabilendo un’unità tra sé e la natura (“Mi faccio la violenza – la cura – di un’attenzione continua e opprimente. Mi dedico a qualcosa, mi piego, divento forte, perdo – cerco di stare dentro il più possibile”), sia quella di mantenere i confini, o meglio l’esile confine della linea del davanzale, analogia per il corpo (“La linea del davanzale è la linea del corpo”) che ci separa dall’ambiente circostante e protegge la nostra interiorità,  ma che al tempo stesso ci ricorda che siamo nel mondo e lo subiamo (“La linea del davanzale | è l’unica cosa rimasta del mondo”; “la linea del corpo alla fine sparisce”; “il corpo è soltanto un semplice peso, è la consolazione del peso, la salvezza miracolosa, prima di: erosione, annullamento, SPARIZIONE”). Vi è quindi una continua ricerca di equilibrio tra l’adattabilità alle circostanze e il mantenimento della propria struttura identitaria che si esplica potentemente nella metafora della linea del davanzale, la quale richiama sia il Montale del Balcone (autore peraltro citato in diverse sedi), sia  Antonella Anedda  (si pensi al titolo della raccolta Dal balcone del corpo, o ai seguenti versi da Notti di pace occidentale: “Vedo dal buio | come dal più radioso dei balconi. | Il corpo è la scure”).          

Ma credo che più di tanti discorsi possa uno degli ultimi testi della raccolta intitolato  Istruzioni per la vittoria:

 

 

 

Cose da fare se la stanza diventasse un cerchio:
 
a piccoli passi regolari camminarci dentro
diventare vuoto meccanismo o una bolla grande, inutile e perfetta
dirigere l’orchestra delle voci
rotolare lungo la linea, rinunciare a salvarsi.

 

 (Giusi Montali)