Premio Bologna in Lettere 2021 – La nota critica di Giancarlo Sissa su Daniel D. Marin

Bologna in Lettere 2021

Il Festival online

 

 

Premio Bologna in Lettere 2021

(Sezione B – Raccolte inedite)

 

Daniel D. Marin

the bodies that never fit us well

 

 

Organizzata in cinque distinte sezioni, chiusa da un notevole testo isolato (Il grifone) e proposta in versione bilingue, inglese e italiano, la raccolta “I corpi che mai si adattano bene a noi stessi” di Daniel D. Marin si mostra programmaticamente complessa sin dal titolo. Assistiamo in effetti, attraverso le cinque sequenze di testi, a un percorso di serrata logica interna e di stratificata raffinatezza sia concettuale che compositiva. Se la versificazione ha caro un suo mandato generosamente comunicativo (e a lungo l’autore deve essersi interrogato anche sulle possibilità poetiche della pragmatica della comunicazione), al punto di farsi quasi narrativa, a tratti, e strutturata in versi limpidi, nitidi, precisissimi, per nulla astrusi, è perché proprio tramite questa chiarezza espositiva che l’autore decide di mettere in campo o, se si preferisce, nero su bianco gli esiti della sua attitudine esistenziale e filosofica, del suo sguardo sul mondo.

Ecco allora che sin dalla prima sezione, “Dai dilemmi del signor R.”, quello che va in scena è precisamente lo sguardo (e quanto spesso ricorre qui la parola occhiali e, altrove, la parola occhi!) di una sorta di novello Monsieur Teste che, abbandonate (rifuggite?) le astrazioni di Monsieur Paul Valéry, decide di incontrare il mondo osservandolo e restituendolo in una versificazione piana ma efficacissima che va caricandosi di sorpresa sillaba dopo sillaba e che si fa capace di proporre al lettore gli estremi di una mite argomentazione espositiva che, per il fatto stesso di non volersi risolvere in astratta teoria o artefatto convincimento, accudisce piuttosto la possibilità, eminentemente poetica, di proporre, in chiusure spesso perfette, soluzioni tanto premurose e gentili quanto inaspettate, ai casi della vita osservati. E in effetti non sono di poco conto gli interrogativi che lo sguardo attento del signor R. propone al lettore: come esiste il mondo nella poesia? in questa poesia? cosa va in scena in questi testi? in questi versi così essenziali e al tempo stesso carichi di realtà? a rispondere è quella che potremmo definire una “parola che guarda” (ricordiamo anche che una precedente raccolta di Marin , del 2014, portava il titolo di “Poesie con gli occhiali”). Lo sguardo e la parola, dunque, pur muovendo da semplici constatazioni o annotazioni finiscono, strada facendo, per organizzarsi nella scena teatrale opportuna a svelare, per chi legge, per chi osserva, per chi partecipa all’esecuzione del testo, determinazioni inattese e sorprendenti, vere e proprie accensioni della coscienza, personali ma condivisibili, caratterizzate da una originalità esposta, coraggiosa, talvolta persino ironica. Sicché, sia che seguiamo il signor R. (che “parla con gli uomini e gli uomini/non parlano con lui”) durante una passeggiata in riva al mare o in un viaggio notturno attraverso la città semideserta, in stato di sonnambulismo, o all’Opera, e che ci si occupi di di signorine, di ragni o di galassie, sempre ci attende, in fondo, “una congiuntura astrale favorevole”, un sorprendente inventario di gesti premurosi, poiché “il signor R. volta con cura le pagine del libro”, sia che si tratti del libro che stiamo leggendo, sia piuttosto dell’incunabolo che chiamiamo mondo.

Nelle sezioni seguenti e a partire dalla seconda, “La voce”, una certa vocazione narrativa che già si annunciava in precedenza, trova modo di distendersi e articolarsi compiutamente poiché chi parla ascolta “e sente profondamente nel suo cervello/si moltiplicano le connessioni e le informazioni”, e desidera dunque dire inaugurando un registro drammatico di straordinaria intensità e sconfinante in una dimensione forse inattesa, ma in realtà conseguente con le profondità del discorso, in cui sadismo e masochismo si contendono la scena, il respiro, la voce appunto, il che risulta particolarmente evidente in poesie come “Il paziente” o “Come mi sono suicidato”, vero testo ponte verso la terza sequenza, “Il sacco”, nella quale si impone una nuova galleria di personae e personaggi“(Il tracagnotto”, “Il fiammifero”, il clochard derubato de “Il sacco”, “L’uomo del canneto”, “L’uomo senza volto”) tutti davvero emblematici della condanna tutta umana (e dilemmatica) a essere consapevoli della propria ombra, della propria unicità e, al tempo stesso, della propria deriva e della propria emarginazione, sorta di irrevocabile dannazione.

Questo stesso sentimento di emarginazione e di inadeguatezza , del resto, si estende e si declina, sia pure con tonalità diverse, nelle due restanti sezioni. In “Spazio intimo” con accenti che raggiungono l’inquietante consistenza di veri e propri exploits di sadismo chirurgico e clinico che riguardano la crudezza insita tanto nell’avere un corpo quanto nella malattia (e “dove innocenza prende spesso forme crudeli”) e in “Tutta la sera” dove tende a dirsi in una sorta di solidarietà tutta tesa fra l’aneddotico e il fiabesco (e di quanta irrevocabile crudeltà è ricco il mondo il fiaba!) segnatamente in testi come “Marinica – il cieco, la ragazzina e i ragazzi più grandi” dove il trasferimento del dono della profezia avviene in modo doloroso, traumatico, classico in un certo senso, ma al tempo stesso inedito, o come ne “Il ragazzo della vicina del piano di sopra” dove appare chiaro che se l’emarginazione può talvolta confinare con la magia ciò avviene, tuttavia, in modo tutt’altro che consolatorio, e anzi piuttosto corrompendosi nella stregoneria più cupa e accesa di un testo ineludibile come “L’inconsolabile”. Sicché non bastano le ipotesi della resurrezione de “Il bambino e il vecchio” a redimere l’umano e persino “La donna” porta con sé tutto il carico emotivo allucinato dell’incubo.

Non stupirà dunque che l’intera raccolta si chiuda con un testo come “Il grifone” dove, sia pure con accenti una volta di più esplicitamente profetici, poeta e creatura alata s’innestano l’uno nell’altro fino a ottenere la completa metamorfosi (o svelamento di realtà arcane) in una sorta di stregonesco scambio di ruoli fra vittima e carnefice, fra uomo e mostro, fra destino e libero arbitrio, categorie dell’umano eterne e dunque presenti e imprescindibili e sulle quali la poesia di Daniel D. Marin si interroga e ci interroga con raffinata intelligenza d’arte. (Giancarlo Sissa)

 

 

Daniel D. Marin, nato in Romania, rinato in Italia, ha vissuto tra Bucarest, Roma, Timișoara, Valencia, vive ora a Sassari, in Sardegna. Poeta, viaggiatore e fotografo amatoriale, un introverso che vive la poesia più di quanto la scriva. È autore di quattro raccolte poetiche romene, tra cui L’ho preso da parte e gli ho detto (2009, Premio Nazionale Marin Mincu 2010) e Poesie con gli occhiali (2014, Premio Nazionale di Poesia George Coșbuc 2015), e di un piccolo diario sardo-americano, Dalla Romania ci sono solo io (2018). È curatore di un’antologia retrospettiva della Generazione 2000 della letteratura romena (Poesia antiutopica. Un’antologia del duemilismo poetico romeno, 2010). Per l’edizione 2015 del Festival Internazionale di Poesia di Bucarest ha tradotto poesie di Annelisa Alleva. Tra il 2013 e il 2016 ha selezionato i testi degli autori rumeni per la rassegna Poesia a Strappo Alghero. Attualmente è redattore associato della rivista Zona Literară, dove ha creato una rubrica di poesia italiana contemporanea, per cui ha tradotto, per la prima volta in romeno, poesie di Antonella Anedda, Laura Pugno, Maria Grazia Calandrone, Isabella Leardini, Laura Liberale, Maria Borio e Milo De Angelis. Una silloge di 30 sue poesie in inglese e italiano è stata finalista al premio Bologna in Lettere 2021, sezione Raccolte inedite.

 

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