Colpi di Voce – Le note introduttive – Maria Laura Valente vs Diego Riccobene

Diego Riccobene

La scrittura di Diego Riccobene affiora dagli abissi di una introiezione ponderata del reale come epifania di un maiestatico corpo sonoro in solenne ostensione dei propri peculiaria maxima che, al pari di stigmate sacralizzanti, testimoniano le conseguenze poetologiche di una deliberata elezione del proteiforme paradigma del passato al rango di interlocutore stilistico privilegiato. Lungi dal costringerne la natura negli angusti limina di una bergsoniana non ulteriore utilità, l’io autoriale riconosce alla concettualizzazione proattiva del passato, qui inteso come tempora acta della diacronia linguistica, un alto potenziale verbaformante e se ne avvale con fabbrile maestria nell’edificazione del proprio dettato poetico. Una collatio trasversale tra Ballate nere (Italic Pequod, 2021), Synagoga (Fallone, 2023) e la silloge inedita Larvae – documenta il quantum dello stile differenziale di Riccobene, nonché la natura perennemente in fieri della sua inesausta opera di restaurazione della decadenza, felice e confacente definizione in forma di sintesi antinomica proferita dall’autore stesso. La danse macabre delle Ballate nere è coreografata da una musicalità intrinseca che, a ogni verso, rievoca l’ancestrale vocazione di canzoni a ballo di tali componimenti, nei quali si ravvisano gli echi, profondamente rimodulati dall’abluzione palingenetica di una piena interiorizzazione, tanto dei vari esiti del magistero italico (segnatamente, della sua forma più compiuta, canonizzata da Cavalcanti e da Petrarca), quanto delle varianti romantiche nord-europee. Le visioni ondivaghe e nottifere che animano ciascun componimento si svolgono a ritmo cadenzato e solenne, enfatizzato da una complessa trama di assonanze e consonanze, scandito da un’opulenza sintattica arcaizzante, satura di iperbati e circonvoluzioni anastrofiche, il cui potere rallentante prevale sull’irrequietezza terminale degli enjambements. La selezione lessicale, rigorosissima, è improntata all’evocativa riesumazione di un gusto antiquario che si nutre di arcaismi, lemmi desueti o disusati, attingendo ad aree semantiche che spaziano dalla mitologia all’ars venatoria, passando per la botanica e la tortura: «la fibra sopra al desco giace esposta/e presto la si brucia, quindi sfregano/corniolo sulla cortice/che i roghi s’alimentino gemelli». I frammenti scelti dal poemetto Synagoga confermano la vocazione liturgica del dettato poetico riccobeniano, incrementandone la cifra visionaria para-sacralizzante che si fa instrumentum hominis per un tentativo bifronte di decrittazione della realtà e di superamento della natura asfittica dei limiti da essa stessa arbitrariamente imposti all’umano. L’archeologia dell’etimo sottesa al processo di verbalizzazione raggiunge profondità ulteriori, proseguendo lungo la descensio ad inferos psico-verbale intrapresa nella prima opera, sostenuta sempre dalla formulare ritualità intrinseca di un andamento sintattico spiriforme: «ma volgo armato in verghe d’umbillifera/marciare in fila a valle sopra lepri». Come nuova e coerente fase di questo magnum opus, l’inedito tratto da Larvae pone un nuovo cippo miliare lungo il percorso di ricerca intrapreso da Riccobene, innervandolo di sottili ricalibrature sintattiche e ulteriori esiti lessicografici, in cui il limes tra riesumazione e neoformazione sublima nel comune afflato dello pneuma etimologico: «Scende strati la frusta, l’iperestasi/delle asprezze che vestono dagli émpiti/nel postutto». (Maria Laura Valente)