Bologna in Lettere 2019 – Appunti, letture, note – Ksenja Laginja / Luciano Mazziotta

La scrittura di Ksenja Laginja, compresi gli inediti che presenterà oggi, è in buona parte riconducibile all’idea del “praticare” contenuta nel titolo della sua ultima raccolta, edita da Ladolfi nel 2015, “Praticare la notte”. Un verbo che fa pensare alle discipline orientali ed evoca un esercizio necessario per imparare a fare i conti con sé stessi e con il proprio essere nel mondo e in relazione con gli altri. Non a caso Ksenja usa spesso il pronome di prima persona plurale “noi” che suggerisce una riflessione sulla comune condizione umana e altrove instaura un dialogo tra l’io che prende la parola nei versi e un “tu” al quale si rivolge, lasciando anche qui trapelare l’intento di trovare una comunanza. Tra i temi ricorrenti nella sua produzione possiamo individuare il contatto con le radici, spesso incarnate dalle figure del padre e della madre e dal topos della casa, anch’esso riconducibile all’infanzia, e quindi alle origini, come suggerisce il riferimento alle fiabe che troviamo in due delle poesie che ascolteremo oggi. La casa appare spesso minacciata, in quanto simbolo di un agognato equilibrio, di una stabilità che Ksenja persegue tenacemente trovandosi a fare i conti con il vuoto, con la perdita, con l’abbandono, talvolta con una rabbia che cova come fuoco sotto la cenere. Un equilibrio che, se a livello tematico appare fragile, nondimeno si mantiene saldo sul piano formale in una scrittura che, per tornare ancora alle discipline orientali, dà prova della capacità dell’autrice di mettersi in ascolto e di maneggiare lo strumento con fermezza. Ne risultano versi essenziali, asciutti, dotati di un forte peso specifico e in grado di imporsi per la loro architettonica solidità. Versi che in una struttura così ben definita accolgono comunque l’incertezza, lo spaesamento e scene violente – come il sogno dell’incendio e l’uscita in mezzo ai lupi – che risultano di forte impatto pur mantenendosi entro i confini di un dettato estremamente controllato.   (Francesca Del Moro)

 

 

 

Dei testi che Luciano Mazziotta ci propone oggi si potrebbe dire, riprendendo le parole che Andrea Inglese scriveva a proposito della sua seconda raccolta, che procedono in una sorta di sospensione tra ragionamento e descrizione, articolandosi in versi lunghi perlopiù scanditi in distici o comunque in strofe brevi e con un uso frequente dell’enjambement. La descrizione stavolta è quella di un percorso tra due luoghi d’arte, a Palermo, città natale del poeta: la cripta dei cappuccini e un museo identificabile con la galleria regionale di Palazzo Abatellis. A instaurare una relazione tra i due spazi non è solo la vicinanza geografica e il fatto che costituiscano due punti di interesse della stessa città ma è il tema cruciale della morte: la cripta dei Cappuccini ospita infatti un gran numero di mummie, tra cui quella celeberrima della piccola Rosalia Lombardo, definita “la mummia più bella del mondo”, che viene chiamata in causa anche in una poesia che ascolteremo, mentre nella galleria appena citata fa bella mostra di sé l’affresco quattrocentesco “Il trionfo della morte” di autore ignoto. A mo’ di guida turistica o di guida dantesca, i versi di Luciano Mazziotta ci accompagnano prima attraverso gli spazi delle catacombe, dove incontriamo le salme, con le quali la visione del poeta ci porta a un contatto ravvicinato, concreto, fino a sfumare i confini tra noi e loro. E poi ci porta a osservare il Trionfo della Morte, dove accade la stessa cosa: così come l’autore ha deciso di diventare parte dell’opera inserendovi il proprio autoritratto, così l’osservatore cade in preda a una sorta di sindrome di Stendhal che lo rapisce al suo interno (“non riesci a uscire dal trionfo” si ripete per ben due volte in questa sezione in cui ci si rivolge a un ideale interlocutore usando il “tu”). In definitiva questi versi, spesso enigmatici e aperti a molteplici interpretazioni, delineano un percorso turistico e assieme esistenziale che ci interroga a fondo sul nostro rapporto con la caducità che, come testimonia il suo ricorrere nell’arte, esercita su di noi una profonda fascinazione. (Francesca Del Moro)