Bologna in Lettere 2019 – Parabole e paraboliche nell’Ascoltazione di Marthia Carrozzo

Sibilo.

Ascolta.

È un sibilo… solo.

Sibilare solo.

Sibilare solo di una sillaba.

Soltanto una.

Solo una.

Una sillaba.

E da dentro, da dentro.

Sibilare, ora, in trame più fitte.

Fitte, fitte di giochi ruffiani,

di intestini di serpi covate.

Ragnatele di vento

Già dentro le teste.

Di già dentro, di voci, e di voci…

E di voci, più giù, nelle teste.

E vociare… e vociare più fitto.

Fitto fitto vociare, più fitto,

e più vuoto, più vuoto, di vento

già soffiato da ogni fessura

e interstizio sottile.

 

Arrivare più fitto, più fitto.

Arrivare più fitto nel mezzo. E passare dal mezzo.

Sibilare, di nuovo, più fitto.

Sibilare più fitto nel mezzo.

E ascoltare… ascoltare.

Ascoltare lo stridulo incanto

Di ogni sillaba fitta,

fitta fitta, nel mezzo.

Ascoltarsi ascoltare.

Di respiro inspirare.

Fitto fitto, più fitto inspirare

E raccogliere tutto.

Respirare respiro.

Deglutire parola.

 

 

Ecco la parabola. Anche se sarebbe più consono parlare di parabolica, non solo perché gli enunciati si rincorrono e ritornano in una struttura circolare e quindi curvilinea, ma anche  e soprattutto perché si tratta di una curva, per così dire, pericolosa. E non è tutto: la curva viene affrontata alla massima velocità, perché Marzia, così come  Anne Waldman è una donna che parla veloce, dicevo: la parabola della scrittura carrozziana comincia così. Il testo citato fa parte della sua prima opera Utero  di luna ed è del 2007, cioè 12 anni fa. Dicevo, comincia  con un sibilo che in un procedimento quasi anagrammatico evoca le sillabe e diventa quindi il sibilo delle sillabe, quelle sillabe fitte fitte  che richiamano inoltre un altro anagramma le sibille. E non si tratta di una forzatura, perché una certa struttura oracolare è comunque insita nella poetica carrozziana, vuoi solo perché si ostina, caparbiamente, a riscrivere il mito (non a caso il suo ultimo progetto ancora inedito è ispirato ad Antigone). E quindi si potrebbe dire che siamo al cospetto del sibilo delle sillabe delle sibille, quel sibilo che inaugura il dettato solo apparentemente asfittico che la caratterizza e la distingue nello scenario multiforme della poesia orale contemporanea. Ho detto solo apparentemente, perché l’asfissia viene intesa generalmente come una costrizione, come un qualcosa che si chiude in se stessa, invece qui – nemmeno tanto paradossalmente – siamo di fronte ad un’espansione. Già nel 2016, a proposito della sua ultima opera edita,  Piccolissimo compianto all’incompiuto  – da me ribattezzata come l’Achilleide di Marthia Carrozzo – già all’epoca parlavo di queste fantomatiche e sintomatiche «figure dell’intensità» associate all’espansione. In quel contesto parlavo di asfissia arieggiata, qui amplificherei e correggerei il tiro con una sorta di apertura ad uno spazio polivalente ove far risuonare la risonanza. Ed è la stessa autrice a dirlo: “[…] tutta aperta. / Dico aperta , dico aperta a spalancare”. E la mia non è una forzatura strutturalistica, né tantomeno un procedimento tautologico, si tratta di quel gioco al massacro  – e lo dico nell’accezione positiva del termine – che eccede ed estende i segni nei «segni di segni» e le figure in «figure di figure». Se nel Piccolissimo compianto all’incompiuto si era alla ricerca di una metà o di una serie di metà, quella umana e quella divina, quella caritatevole e quella guerrafondaia e via dicendo, qui si cerca di entrare in un regime dove ciò che conta è l’ascolto di un intero che una volta costituitosi a partire da quelle metà non può fare a meno di smembrarsi a sua volta. Carrozzo la chiama Ascoltazione, che altri non è che una risonanza funzionale e differenziale. Si tratta di far risuonare la risonanza, per questo il semplice ascolto si trasforma in una ascoltazione polistrutturata.

 

Ad una prima lettura risulterà evidente il fatto che non sia un caso che l’io dico del primo movimento metta in gioco le figure del balbettio e dell’asfissia per approdare quasi naturalmente nel secondo movimento al rifiuto. Poi d’improvviso ritrova la voce, e non solo, ritrova anche il respiro, o meglio la radice del respiro, quella radice che è essenza e origine, humus e nutrimento. C’è un passaggio che vorrei sottolineare

 

Detriti e fanghiglia oltre l’orlo e lo sputo,

Una piccola taglia di voce intagliata nel collo.

Tagliola di voce nel collo,

Tenaglia che piega e si piega, che flette.

Burrone e barrito in baratto perenne.

 

Al di là del fitto gioco delle sillabe che si rincorrono e si ripropongono in allitterazioni, assonanze, consonanze, rime interne e baciate e che creano un flusso, in quella “tenaglia che piega e si piega” troviamo la doppia consistenza che caratterizza tutta la poetica carrozziana e che consiste nella presenza simultanea della contrazione e della dilatazione, un po’ quello che veniva detto nel sibilo: “Di respiro inspirare”, ma anche “Respirare respiro”.

Nella prima proposizione si gioca sulla riconciliazione dei contrari, nella seconda si cerca di sovrastrutturare l’uno nel due.  Sono entrambi raddoppiamenti, da un lato la compresenza dei contrari e dall’altro lato l’azione, o meglio l’atto di respirare il respiro. Questa ascoltazione consiste anch’essa in un doppio movimento: quello di ascoltarsi e di ascoltare, allo scopo di rendersi prossimi alla linea lungo la quale si propaga la risonanza.

E dunque, primo movimento: IO DICO,  ipse dixit (categorico ma aperto, già detto e conclamato eppure ribattuto all’infinito), soggetto agente per sé, in prima persona, soggetto parlante in un tutt’uno vorticoso e spiraleggiante con la stessa parola.

Dico io, adesso, la parola, adesso, qui, nell’immanenza. È qui che accade, è qui che cade e si rialza, qui, nello spazio dove si propaga la risonanza, di sé, per sé, ma anche fuori di sé, perché l’ascolto, o meglio l’ascoltazione consiste nel ricevere la freccia sonora scagliata nello spazio. Uno spazio, come ho già accennato in passato, naturalmente espanso e che è votato a raccogliere l’intensità che vi viene disseminata.

Come accade ciò?

A tutta voce e tramite una dilatazione : non a caso un passaggio recita: “Dico ora la parola che sconfina”, un doppio movimento quindi, la parola detta ora, qui, ma che sconfina, esce fuori dall’immanenza del suo darsi e si propaga. Ma si propaga anche all’interno di chi espelle la voce, ecco il secondo movimento, quello del rifiuto, ma è solo un breve attimo che funge da ponte tra l’io dico del primo movimento e  il ritrovamento della voce del terzo movimento. “Ritrovo trachea che sa dire, / Ritrovo trachea che si offre e sa dire”.

C’è un contatto diretto, esclusivo, personalizzato, tra la voce e la bocca che dice la voce. È questo il senso, il vero senso di tutte le estensioni di Marthia Carrozzo, c’è un contatto corporeo, anatomico, pluristrutturato tra il corpo che emette la voce e la parola che risuona nello spazio a partire da quel corpo. Rapporto biunivoco, energetico, intenso, decisamente eccedente. Eccedente sì ma, beninteso, calibrato. Inscritto cioè in un registro che ha i suoi margini, le sue bordature. Ponge diceva che qualsiasi testo comporta la propria dizione. E la dizione come affermava Nancy è già il proprio ascolto. Voi mi scuserete ma devo citare testualmente un passo di Nancy che è qui determinante per meglio comprendere  questo soggetto che si offre come oggetto da toccare attraverso l’ascolto: “Dire non è sempre, né soltanto, parlare; o meglio, parlare non è soltanto significare, ma è anche sempre, dettare, dictare, cioè conferire al dire il proprio tono, ossia il proprio stile (la sua tonalità, il suo colore, la sua andatura) e, al contempo, per questo o in questo, in questa operazione o in questa divisa del dire, recitarlo, recitarselo o lasciare che si reciti – si faccia sonoro, si de-clami e si esclami, e citi se stesso (si metta in moto, si richiami, secondo il primitivo valore della parola, s’inciti), rinvii alla propria eco e, così facendo, si faccia[1].

Ed per questo, in questo “si faccia”, si faccia dunque la voce, che nel quarto movimento, denominato Sono dei vostri, si concreta e si completa la circolarità del rinvio e della propagazione. Avviene il contatto e viene consolidata la figura semantico-metafisica della «cura», prendersi cura di sé e dell’altro, di sé attraverso l’altro con cui entrare in contatto. Toccare e farsi toccare ma non propriamente con le mani, toccarsi attraverso l’udito. L’ascoltazione è questo toccare/toccarsi, orecchio a orecchio. E tutto si amalgama, ovvero diviene un tutt’uno (per usare le parole dell’autrice diventa “il corpo di un’unica voce”) nell’epilogo quando la parabolica si completa certificando l’avvenuto contatto e decretando la compresenza  dei ruoli tra chi si offre come puro ascolto e chi recepisce l’ascolto assimilando ed estendendo la risonanza. Ed è così che arriviamo alla definizione ultima: il mio canto è anche il tuo canto, il suo canto è anche il nostro canto. Due soli versi che dicono tutto: “Se il mio canto cerca eco nel tuo sterno,/ se il mio canto è il tuo, ch è il tuo canto”. (Enzo Campi)

 

 

 

Un estratto dal quarto movimento: Sono dei vostri

 

Io sono

Dei vostri stessi atomi.

Io sono

Dei vostri.

Dello stesso tuo fiato che stride sgusciando elegante.

Della stessa membrana. Dell’unico bilico certo.

Infantile, io sono e nudata.

É lo stesso, l’impianto del nome in clavicole fitte.

come fossi xilofono o stormo.

É lo stesso piumaggio irritabile e franto che lede tra i pori.

É lo stesso colore incolore delle unghie incapaci.

Ciò che è stato. E che ancora verrà.

La radice del prima, del prima.

Da prima.

 

La radice prima e ultima del respiro.

 

Il respiro:

L’arte certosina di gonfiare i polmoni

e le pance, le pance più giù,

che s’infiltra la luce e vapòra.

Che s’infiltra la luce, la luce e vapòra

e anche il buio da sotto le ciglia;

caramella paventi di gioco, si spaura se chiamo, se chiamo,

dello stesso mio identico nome.

 

Dello stesso tuo identico nome.

 

[…]

 

Che io sono, io sono dei vostri.

Che io sono dei vostri davvero.

Come albero o zampa o silenzio.

Come fremito dolce del sangue.

Come il tonfo accecante alla pelvi,

quando brucia, fa fiato e ferita,

come flipper sdentato tra i nervi.

Come dita alle dita a contare,

tra le vertebre e il perno tra i seni,

nell’affanno che presto saetta,

nell’affanno spumoso che sale.

Nella resa. Nel morso, Nel riso.

 

Che io sono, io sono dei vostri.

Che io sono dei vostri davvero

É lo stesso piumaggio splendente che vira tra i pori, che fende.

É lo stesso calore capace che inarca le reni.

É lo stesso, se adesso vi parlo.

É lo stesso, lo stesso si adesso vi parlo, vi parlo.

È lo stesso, se adesso mi fermo e vi parlo.

Se mi fermo, mi fermo e già dico.

Se mi mostro e già dico, da ferma.

Se mi mostro, vi sono, vi sono.

Se mi mostro, se sono

per

voi.

 

 

 

[1] Jean-Luc Nancy, All’ascolto, Trad. E. Lisciani Petrini, Raffaello Cortina, Milano, 2004, p. 57 (evidenziatura in grassetto mia)