Bologna in Lettere 10th – Alfredo Panetta

 

Bologna in Lettere 10th

BĂBÉL stati di alterazione

 

 

Azione 7

GENEALOGIE – LE LINGUE MATRíE

a cura di

Anna Maria Curci, Francesca Del Moro

 

 

 

Alfredo Panetta

Première video Giovedì 28 ore 21.30

sul canale youtube del Festival

 

 

 

Alfredo Panetta è nato nel 1962 a Locri (R.C.). Nel 1981 si è trasferito a Milano, dove tuttora vive e svolge l’attività di artigiano nel settore Infissi in Alluminio. I suoi testi sono stati pubblicati su varie riviste (Nuovi Argomenti, Tratti, Il Segnale, Poesia) e inclusi in raccolte antologiche (L’Italia a Pezzi, Guardando per Terra, Annuario Raffaelli, ecc.). Ha ottenuto vari riconoscimenti, tra cui i premi Montale, Pascoli, Noventa-Pascutto, Gozzano, Città di Lanciano. Ha al suo attivo 4 raccolte edite, l’ultima delle quali è Ponti Sdarrupatu (Il crollo del Ponte, Passigli, 2021). È membro di 3 giurie di premi letterari (Daniela Cairoli, Città di Galbiate, Giugno Locrese). Per 4 anni consecutivi, prima del Covid, ha coordinato dei laboratori di scrittura poetica presso le scuole primarie di Lecco e Gallarate.

 

 

 

 

EU NON M’ARRAGGIU  

 

Vidi, sparti du hjiatu

u mè collega

m’arrobbà u temphu.

 

Staci nnanzi ò tòrniu

sulu se passa u capofficina,

unchjia u petthu

com’un gaju

chi cerca approvazzioni.

 

A mmia mi guarda

di l’artu mberzù ò vasciu

comu cu n’ammerita

d’èssari guardatu.

 

Ma eu non m’arraggiu, sa’

staju nt’a paci

c’u lavuri cunsigghjia.

 

Mò chi capiscìu tanti cosi

mi bizzau m‘i fazzu,

potèssari na viti

ad arta pricisioni,

oppuru nu ccittu

ò momenthu bonu.

 

Sacciu qual’esti ‘a differenza

thra na mancanza e ‘na perdita

e c’ a prepotenza

dura u temphu ‘i na rosa,

sacciu ca ogni rosa

teni ‘n parti disoguali

luci ed umbri.

 

Eu mparu du mistieri

ca ogni juornu mi maravigghjiu

‘i mia e du travagghjiu.

E cusì, senza pretesi, vaju nnanzi.

 

E addunca guardu u mè cullega

comu sulu du vasciu

si poti fari,

leju ‘nta sò pochezza

u nenti d’oji.

 

Iju, cusì spurtunatu

nommu ama u travagghjiu.

 

 

 

IO NON MI ARRABBIO

 

Vedi, oltre il fiato

il mio collega

mi ha rubato il tempo.

 

Sta davanti al tornio

solo quando passa il caporeparto,

gonfia il petto come un gallo

 in cerca di consenso.

 

A me mi guarda dall’alto

verso il basso, come chi

non è degno di essere guardato.

 

Ma io non mi arrabbio, sai

sto nella pace

che il lavoro detta.

 

Ora che ho capito alcune di cose

so come realizzarle,

si tratti di una vite

ad alta precisione

o di abbassare gli occhi

al momento opportuno.

 

So la differenza tra un’assenza

e una perdita, e che la prepotenza

dura il tempo di una rosa,

so che ogni rosa

ha in parti diseguali

luci ed ombre.

 

Imparo dal mestiere

che ogni giorno mi stupisco

di me e del lavoro. Così,

senza pretese vado avanti.

 

E allora osservo il mio collega

come solo dal basso si può fare

leggo nella sua pochezza

il niente di oggi.

 

Lui, così sfortunato

a non amare il lavoro.

 

 

Anna Maria Curci

Sul progetto GENEALOGIE – LE LINGUE MATRÍE

 

 

Già nel 1978, con la raccolta Mutterland. Gedichte, Rose Ausländer proponeva una parola e una terra nuove, in contrapposizione a Vaterland, “patria”, termine gravato da una storia lunghissima di appello alle armi e retorica bellica, regione di prevaricazioni e di violenze. Nella poesia Mutterland (matria, terra materna, madreterra), Rose Ausländer scriveva: «La mia patria/ è morta/ l’hanno sepolta/ nel fuoco// Io vivo/ nella mia madreterra/ la parola» (la traduzione è mia). La «terra materna» della raccolta – e della poesia che dava il titolo alla raccolta – di Rose Ausländer, preannunciava quella che, nei versi di Mario Luzi del 1990 da Frasi e incisi di un canto salutare, sarebbe stata «matria»: «Grazie, matria/ per questi tuoi bruciati/ saliscendi».

La parola come matria, come terra materna, dischiude territori che oltrepassano i confini nazionali; è una parola che non può che essere plurale: proprio da qui si sviluppano queste mie riflessioni sulla centralità della poesia dialettale in ogni discorso che voglia restituire consistenza all’aspirazione, che oso dire insopprimibile, a una parola poetica sonoramente universale.

Aspirazione all’universale che è anche assunzione di responsabilità, atto di impegno, passaggio del testimone, di un testimone che mi sembra pienamente accolto, oggi, dalla poesia nei dialetti d’Italia. Ben lungi dall’essere un mero ornamento folkloristico, liberatasi dallo stampo di un rimpianto fine a sé stesso, tale poesia ingaggia una fruttuosa tenzone con la contemporaneità, della quale pur avverte la disgregazione e, non di rado, la devastazione dilagante, quella subíta così come quella provocata.

Nella «terra devastata» fiorisce dunque la parola terra materna, e fiorisce con sonorità, con melodie linguistiche e con accenti vari, spesso così distanti tra loro per urti dissonanti e pur sempre fecondi.

Il plurilinguismo poetico al quale dà vita la poesia contemporanea nei dialetti d’Italia ha, inoltre, il pregio tipico di ogni manifestazione di plurilinguismo, vale a dire quello di favorire sviluppi (incoraggiati da incontri e intrecci, da conversazioni a più voci), degni di interesse anche nelle lingue nazionali.

Perché è proprio la poesia dialettale contemporanea a muoversi verso la pienezza e a resistere attivamente all’esclusione, alla messa nell’angolo, in breve all’ottuso lavorio del monocorde, monolingue, monotono?

Innanzitutto per lo scatto da cui ogni poesia prende le mosse, vale a dire dall’esigenza di «trovare frasi vere» (Ingeborg Bachmann). Ebbene, questa necessità riconosciuta si spinge nella poesia dialettale fino nelle pieghe più remote, nei varchi più profondi. A questo proposito, nella conversazione con Andrea Camilleri, poi pubblicata con il titolo La lingua batte dove il dente duole (Laterza 2013), Tullio De Mauro riporta un passaggio rivelatore da Libera nos a Malo di Luigi Meneghello: «Nell’epidermide di un uomo si possono trovare, sopra, le ferite superficiali, vergate in italiano, in francese, in latino; sotto ci sono le ferite più antiche, quelle delle parole del dialetto, che rimarginandosi hanno fatto delle croste. Queste ferite, se toccate, provocano una reazione a catena, difficile da spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nocciolo indistruttibile di materia, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, percepita prima che imparassimo a ragionare, e immodificabile, anche se in seguito ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua».

La poesia dialettale non va soltanto a ricercare, per riportarla alla luce, la parola, il lemma, il vocabolo aderente alla realtà che preme per farsi creazione poetica. Essa è dimora primigenia e non rinnegata; aspira, oltre a ciò, a farsi ponte verso altri territori di parole, altri idiomi, che sono sistemi linguistici e, insieme, organismi vivi e continuamente vivificati da questo processo creativo.

Nel farsi ponte, la «madreterra parola» arricchisce, innova, amplia la rete, favorisce l’apertura di nuovi passaggi e il mutuo concorrere a una forma, nuova, dinamica, innovativa.

L’attenzione allo strumento linguistico, medium e sostanza della poesia, resta sempre vigile, dando vita non di rado a una feconda tensione tra familiarità e straniamento, inattualità e immanenza.

Non è azzardato dunque affermare che il panorama poetico si è arricchito, ampliato, rinvigorito grazie all’incontro con la poesia dialettale. Questo vale non soltanto per le versioni in italiano che gli stessi poeti dialettali creano delle proprie poesie, ma anche per il circolo virtuoso che si è andato sviluppando nel campo delle riflessioni metalinguistiche, quindi su temi, strumenti e cadenze del dire poetico.

Il viaggio di BIL 2021/2022 propone un itinerario tra alcune voci particolarmente significative della poesia contemporanea nei dialetti d’Italia. L’itinerario percorrerà la penisola italiana e le isole principali, Sardegna e Sicilia e si realizzerà nei contributi di autrici e autori, con i loro volti e, soprattutto, con le loro voci.