Premio Bologna in Lettere 2021 – I Premi Speciali – Francesca Tisano

Enzo Campi

Fare e disfare, iniziare, non finire.

(uno sguardo sulla poetica di Francesca Tisano)

 

Francesca Tisano non ha ancora pubblicato nulla. Quindi questo mio sguardo si rivolge a una serie di inediti. Tisano ha partecipato all’ultima edizione del Premio con una coppia di poesie che recano, come titolo complessivo, Ierofanie domestiche, ma terremo conto anche della serie denominata “Mitologiche” (Ulisse e Penelope, Didone, Ismene, Enea).

Partiamo dall’etimo, ovvero dal significato primigenio. La ierofania si riferisce a una rivelazione o a un miracolo. In poche parole a una sorta di apparizione di una cosa o un essere sacri o divini. È composto da iero e terra, dal greco apparire. Più o meno coincide con il senso della presenza, per quanto effimera o fantasmatica possa essere. Ebbene, nella prima poesia non c’è presenza né rivelazione, non in modo evidente almeno. L’idea sembra quella di porsi al riparo in un luogo sicuro e di stabilizzarsi in una situazione di attesa (“in questo indugiare protetto”; “questo è il luogo dove attendere”). Potrebbe sembrare una contraddizione in termini, ma la chiusa della poesia sembra prefigurare una virata di bordo: “Per cura del sopravvenire / segniamo linee di confine/ in attesa del prossimo smarginare”. Difatti nella seconda poesia, una volta lasciato il noi, comincia a delinearsi l’aletheia di un tu che, come da copione, è (dis)impegnato a fare i conti con la propria alterità (“Superbo cammini come animale diviso”; “Nel tuo nuovo gioco di simboli hai lottato eretto,/ ma hai dimenticato la natura del tuo gesto”). Scandagliando altre sue poesie ci troviamo a notare come spesso Tisano innesti un enunciato concluso in sé all’interno del flusso provocando quindi un’interruzione. Questa sorta di voluta disarmonia, per via della frequenza con cui si ripete assume la valenza di un vero e proprio dispositivo che, ricorrendo a Derrida, definiremo performativo e non certo constatativo in quanto fa opera di-sé-in-sé. Con buona pace di Foucault, se ci sono dei dispositivi al lavoro vuol dire che c’è una struttura. A livello propriamente strutturale, se la struttura rappresenta la “forza di rottura” del testo (non è un caso, come vedremo più avanti nelle poesie definite “mitologiche”, che la scelta dei personaggi avvenga per lo più al negativo, prediligendo l’anti-eroe all’eroe), la sua firma  (si legga anche marca o marchio) attraverso un evento o una serie di eventi crea quasi automaticamente o comunque naturalmente un contesto, il contesto, l’unico che si può dare quando si affronta il mito: la morte o l’idea di morte che condiziona e crea gli eventi. Tisano però non nomina mai espressamente la morte (in realtà viene nominata una sola volta nella poesia dedicata a Ismene). Essa scorre come traccia fantasmatica in tutte le sue poesie come condizione essenziale per l’avvento di un evento. In tale ottica, ogni evento che Tisano fa cadere sulla carta è intriso del senso della perdita, diremo di una necessità della perdita, senza la quale verrebbe meno il contesto e non sarebbe possibile scrivere in proprio nome, nel segno del proprio nome, nella marca e nel marchio del proprio nome. Ma è davvero così importante in questa scrittura rivendicare il nome proprio di chi scrive? Non spetta a me rispondere, ma il differimento del soggetto verso personaggi al negativo o comunque marginali (Didone che si ammazza perché lasciata da Enea, Ismene che vive nell’insignificanza all’ombra della sorella) instaura in chi legge un senso di dispersione del nome proprio a favore di una nominazione generica ma non per questo meno significativa. A solo titolo d’occorrenza Ismene viene definita “sorella inconclusa”. E avremmo già detto tutto, ma soffermiamoci nuovamente sul senso dell’attesa, questa volta nella poesia dedicata a Ulisse e Penelope, riprendendo il concetto di differenza o, per essere più precisi, uno dei concetti di differenza. Come giustamente ci fa notare Deleuze[1], il concetto di differenza, la filosofia della differenza in Bergson si avvale di due piani, uno metodologico, l’altro ontologico. Il primo basato sulla  differenza di natura delle cose e il secondo, supponendo che anche la differenza possegga una natura, sarebbe rivolto a disvelarci l’essere. Quasi senza rendercene conto abbiamo, in un colpo solo, ripreso l’aletheia e ci stiamo preparando a rientrare nella dimensione, quasi esistenzialista, dell’attesa. Il problema, in Bergson, se può considerarsi come un problema, è che entrambi i piani agiscono simultaneamente, e quindi ciò che conta è il loro legame, così come è quasi esistenzialista il legame che pone Ulisse e Penelope sulla stessa linea ontologica, quella linea che Ulisse e Penelope calpestano simultaneamente pur essendo in due diverse parti del mondo, quella linea dove attesa e disvelamento sono unificati in un solo movimento. Da tali presupposti la differenza tra le cose, in Penelope, si situa in un movimento oppositivo (fare-disfare) che, pur nello scorrere del tempo, ci riporta sempre alla stessa temporalità idealizzata e che solo apparentemente risulta inevasa. Mentre il disvelamento dell’essere non ci mostra l’essenza di Penelope, ma lo status dell’essere che attende che il legame si trasformi da ontologico a fisico mediante quella che viene definita: “notturna opera d’intreccio”. Il senso dell’attesa che viene surcodificato da Penelope rappresenta, a tutti gli effetti un archetipo, è un dispositivo il cui significante è la tela, il termine oggetto, l’oggetto-io che crea e determina il contesto. In tale ottica, e con una leggera forzatura, il legame di cui si accennava si rende fattivo in quell’oggetto-tela che funge da legante tra la metodologia della ripetizione quotidiana (“una tela che allontana il nero del mondo per difendere un trono vuoto”) e l’ontologia della differenza che verrà (“un viaggio in preda alle correnti per ritornare a casa” e per situarsi “al centro della tela”). In tale ottica, ritornando alle ierofanie, nella prima poesia l’oggetto-io si qualifica nel trittico, per così dire fisico: radice-porta-finestra, mentre nella seconda poesia ci vediamo costretti a traslare su un piano esistenziale-metafisico identificando l’oggetto-io con “l’assenza di un’antica rottura” o con “il suono che non forma parole chiama aria a raccolta”. Ma le occorrenze, in entrambe le poesie, sono molteplici e concorrono tutte alla definizione di un senso unico che, amalgamando tra loro le chiuse delle due poesie, si potrebbe leggere anche così: “segniamo linee di confine” dove “nessun libro di storia racconterà la Storia dell’Umanità”.

Forse, per Tisano, l’unica soluzione è quella di far proprio il motto di Penelope: “fare e disfare, iniziare, non finire” per far sì che attesa e disvelamento siano unificati in un solo movimento, un movimento complesso e articolato, anche estetico, capace di generare un doppio intervallo in cui agire e farsi agire, quello tra il fare e il disfare che implica una relazione di subordinazione biunivoca tra la creazione e la distruzione, e quello tra iniziare e non finire che invece svela il fine ultimo di una presenza a venire.  Si tratterebbe, in poche parole, di demistificare il mito per depotenziarlo o comunque di ritardarne l’avvento per permettere al flusso della scrittura di drammatizzarne i segni, le tracce e le figure.

 

[1] Cfr. G. Deleuze, La concezione della differenza in Bergson, in id. L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, 2007 pp.33-60

 

 

Francesca Tisano (1993) nata a Siracusa e cresciuta a Volterra dove intraprende il percorso di attrice con la Compagnia della Fortezza nel 2011. Sempre con la Compagnia della Fortezza collabora per le drammaturgie originali a partire dal 2015. Da Volterra si sposta a Bologna per studiare teatro e proseguire gli studi in Italianistica, laureandosi con una tesi in poesia italiana del Novecento, incentrata sulla Letania per Carmelo Bene di Emilio Villa. Ha lavorato come attrice con Teatro Nucleo e ha collaborato inoltre come attrice e autrice in diversi progetti tra cui uno studio audiovisivo sulla figura di Persefone presso il Teatro Comunale di Pergine, e il progetto di musica contemporanea VOCES NATURAE, un concerto spettacolo sul cambiamento climatico del collettivo In.Nova.Fert.