Premio Bologna in Lettere – La nota critica di Daniele Poletti su Diktionarium di Giorgia La Placa

Diktionarium/Diktatorium
Breve nota a Diktionarium di Giorgia La Placa

 

Non so come, nella fuga dell’occhio, la raccolta di Giorgia La Placa mi si è manifestata, fin quasi alla decretata vittoria, con il titolo di “Diktatorium” in luogo di Diktionarium.
Un lapsus anagrammatico che, pur emendato, ha continuato a ronzare intorno a questo lavoro e ne diventa quindi di diritto una delle leve interpretative.

Il Diktionarium di La Placa, articolato nelle sezioni Dizionarietto, Lessico – Lessici, Chi dice o non dice, Le parole fanstama, è il tentativo di dare ordine a uno sradicamento (di luogo ed emotivo) per una riambientazione che sia determinabile, dicibile, organizzabile.
Il disagio delle contingenze attraversate ‒ dal pervisto al persentito del quotidiano più comune, fino a considerazioni più intimamente astratte ‒ diventa ferita dell’“esserci” (Dasein) e presa di coscienza dell’impossibilità di sedare, se non di dominare, il caos delle variabili rispetto all’individuo. La coscienza del soggetto narrante non è tuttavia una lacrimosa richiesta di aiuto (ci sono denunce chiare come questa: «Rauche lettere in fila che fingo di padroneggiare / ammutiscono e abbrutiscono»), perché l’autrice con naturalezza interseca al dettato il pedale dell’ironia (un esempio: «‘era una brava persona, faceva proprio la muffa’»).
Paradigmatico e rivelatorio di questo andamento a doppio binario è proprio il primo componimento, che si apre all’insegna di un respiro cercato, ma anche strozzato, afflato incipit opera peraltro:

‘Αρρεπτολεπτόπνευστος

L’hangar delicato di rime
sta bene con la stagnola di un panino con lo stracchino,
entrambi qui accartocciati come un nulla

buttato per strada.
Mi dico che dovrei fare la raccolta differenziata.

 

In questo pezzo è lampante la coacervazione figurale che, attraverso i correlativi oggettivi, trasmette per via di straniamento un senso di inadeguatezza e di perdita, ma cauterizzate da una chiusa che non può non strappare un sorriso, seppure amarognolo. Nonostante l’importanza del testo nell’economia di tutto il lavoro, la sezione Dizionarietto appare come una sequenza di testi composti con un certo anticipo, rispetto alla compattezza delle restanti parti del libro, restituendo un senso di rapsodica ricerca di quel percorso sulla presa di coscienza del soggetto rispetto alla dicibilità del mondo, che si concretizza poi pienamente in Lessico – Lessici, Chi dice o non dice, Le parole fanstama. Dunque, nell’alternanza delle lingue per i titoli di Dizionarietto, e di parole spesso intraducibili (vedi: Dadirri o Hiraeth) si intravede la strenua proiezione verso la necessità di rappresentare ‒ che poi si sbriciolerà con il proseguire delle sezioni, fino ad arrivare a “fantasmi di parole”, a oggetti traslucidi che furono eco di significati ‒ ma è proprio qui che lo strumento catalogatore di significati per eccellenza, “Diktionarium”, diventa un Diktatorium. Come affermano Douglas Hofstadter ed Emmanuel Sander nel libro Superfici ed essenze: «È facile […] sottostimare la sottigliezza e la complessità dei concetti, soprattutto perché la tendenza a pensarli in termini eccessivamente semplici è rafforzata dai dizionari, che pretendono di spiegare i diversi significati di una determinata parola suddividendo il lemma pricipale in un certo numero di accezioni. […] Ma tutto ciò non si avvicina neanche lontanamente alla verità, perché i sottosignificati sono spesso strettamente connessi […] e perché ognuno di questi sottosignificati, che si ritengono chiari e distinti, costituisce di per sé un abisso senza fondo di complessità.» Dunque il dizionario finisce per diventare una gabbia, una dittatura che dà preminenza a un significato univoco o a più monadi di significato, un’àncora terapeutica, che però non riesce a sanare lo iato e la ferita che stanno tra “la stagnola del panino con lo stracchino” e «L’hangar delicato di rime». Le “parole scompaiono” come “i morti”, alla fine (del libro) “bar” diventa in un attimo “bara”, le coordinate per riambientarsi si ingarbugliano, rimane la memoria come serbatoio di respiro, una memoria che si ricostruisce continuamente per via analogica col camminare.

 

(Daniele Poletti)