Premio Bologna in Lettere 2024
Sezione A – Opere edite
Poetica del singhiozzo. Nota a Il tempo ammutinato
Verrebbe certo spontaneo pensare che il tempo che si è ammutinato in questo libro sia quello che scandisce la nostra vita, con il suo racconto; tuttavia il sottotitolo, Partiture, suggerisce che si tratti (anche) di un tempo diverso, quello cioè che scandisce la musica, quello che, normalmente, può configurarsi come largo, adagio, andante, allegro, allegro con fuoco, e ancora in molti altri modi. Una misura di agogica, cioè una misura che, insieme con la dinamica (piano, forte, fortissimo) definisce l’energia con cui la serie delle note deve essere eseguita. Una misura cruciale, insomma, che, almeno nella musica occidentale, si mantiene relativamente costante nel corso di un brano.
Che cosa succede se questo tempo si ammutina? Di colpo, ecco che le forme sonore non sono più quello che erano. L’ammutinamento del tempo cambia il loro senso, le trasforma intimamente, benché sulla carta della partitura possano rimanere esattamente le stesse.
Eppure quelle di questo libro non sono davvero partiture. Non c’è propriamente musica, qui. Ci sono piccole sequenze di parole, piene di riprese e di rimandi. C’è l’illusione dell’apertura di un racconto, che presto si rivela piuttosto una sorta di nebulosa, perché le parole tornano e ritornano, ogni volta combinate diversamente, talvolta con l’irruzione di una parola nuova, a complicare il gioco – salvo accorgersi, magari, che non si tratta che di un altro ritorno: un sinonimo, un analogo.
Ci si sente caduti in una sorta di lenta spirale, dove clausole in corsivo fanno eco a clausole in tondo, dove sono segnati sulle vocali accenti sbagliati, divisioni inconsulte. Ecco, il tempo mostra il suo disordine, fa impennare le parole, ci costringe a fermarci dove non siamo soliti farlo, a scorrere dove rallenteremmo. Punto contro punto, la logica della variazione vince su quella della narrazione – senza del tutto spodestarla, in verità, ma come svuotandola.
Dovrebbero essere frasi musicali: la loro struttura, la loro giustapposizione, la maniera della loro progressione è più quella di un brano di musica che quella di un brano di parola. E tuttavia quelle di questo libro non smettono di essere parole, non possono smettere di portare il proprio senso, di alludere al racconto, di combinarsi in discorsi, di dire qualcosa, insomma. Per questo, ritornano, straniate nella loro stessa forma dalle accentazioni anomale, dislocate in frasi nuove, ma simili.
Di che cosa si parla qui? Che cosa viene detto? La vita, la morte, l’aria, i fiori, iddio (rigorosamente minuscolo). Le parole si chiamano tra loro. A momenti, sembra di ascoltare un ochetus, una forma antica di polifonia in cui le diverse voci non si sovrappongono, ma si alternano continuamente, spezzando a volte persino le singole parole: una sorta di singhiozzo (dal francese hoquet) del discorso. Magari è questo il tempo ammutinato, quello del singhiozzo, della continua interruzione, della continua variazione, che ci costringe a guardare le parole tradizionali della lirica come se fossero tutt’altro. Il tempo cambiato in maniera imprevedibile cambia il senso delle parole, le stravolge benché sulla carta siano sempre loro.
Silvia Comoglio ci spiega, in una nota in chiusura, che si tratta di una ricerca sull’essenza della parola. Per farlo, prende parole usurate, i temi e le frasi della lirica, e le intesse in questo polifonico singhiozzo. Anche nell’ultima sezione, dove i singoli testi si fanno più lunghi e articolati, i ritorni ossessivi non smettono: non si tratta solo di suoni, ritornano anche i sensi; le rime stesse sono rime di suono, ma possono essere anche rime di senso. Pure il tempo del quotidiano, con il suo racconto, ha così perso la sua consequenzialità. Il racconto personale della lirica, travolto dall’ammutinamento del tempo, è diventato una serie di echi che si rispondono, che si trasmettono, che costruiscono qualcosa di completamente diverso. Le parole si aprono, come in musica, ad altri mondi. (Daniele Barbieri)