Premio Bologna in Lettere 2024- Note critiche e appunti di lettura – Francesca Del Moro vs Adriana Tasin

Premio Bologna in Lettere 2024

Sezione C – Poesie singole inedite

 

Le tre poesie che Adriana Tasin presenta in questa occasione ci trasportano in un’atmosfera inizialmente enigmatica che a poco a poco si definisce, mettendo a fuoco uno scenario parigino da inizio novecento, con la neve, le tenebre, il gelo e l’acqua della Senna a dominare. Le chiuse del primo e del terzo componimento culminano con delle domande, a rafforzare da un lato un senso di sospensione, dall’altro il tentativo di contatto con chi è ormai passato dall’altra parte. Si comincia con la necessità di una rigenerazione, che sembra prospettare una prosecuzione al di là della morte, morte che viene accolta, custodita dall’acqua (“chissà perché le cose devono sempre finire in acqua, palude o mare, ci si chiede”), un’acqua tombale, immota, l’acqua di pietra che dà il titolo alla mini-silloge, insieme alla cerimonia dell’attesa, che potrebbe essere quella di una rinascita o dell’affido del corpo all’ultimo viaggio.

Lo scenario si va via via definendo intorno al dialogo tra un io poetante e un tu che è già oltre la soglia – forse un’alpinista caduto e morto congelato – che si dispone ad accogliere l’ultima vestizione e la composizione a mani giunte, prima dell’inchiodarsi del legno. Il culmine visivo è dato dal riferimento all’opera di Alfred von Wierusz-Kowalski, pittore polacco vissuto tra il 1849 e il 1915 ed esponente della scuola di Monaco. Il richiamo è al suo quadro probabilmente più noto, Lupo solitario, che dischiude la prospettiva su uno spazio pianeggiante innevato e rafforza la figura del lupo, che in questi versi si impone non solo visivamente ma anche a livello auditivo: “l’ululare del branco di lupi”, e ancora “l’ululato addolorato del lupo” e infine “il ruglio, l’ululato”. Nelle poesie di Adriana Tasin questo animale riverse il suo tradizionale ruolo di numen, tramite spirituale sulla soglia tra i due mondi.

Oltre al verso del lupo, si susseguono qui altri suoni a scandire la vicenda del corpo preparato e affidato alle acque: le “voci di sottofondo nella morgue”, “il rumore dei chiodi”, il “tonfo del corpo”, i “suoni caduti”, e infine “il ruglio, l’ululato l’eco” in un’accumulazione che spezza e al contempo enfatizza la conclusiva domanda cruciale.

I suoni piovono implacabili, con il loro ordito angosciante, su un paesaggio improntato all’idea del dissolvimento. Dissolvimento assoluto perché chi è affidato alla sepoltura non ha nome (“nessuno che faccia appello che chiami”; “altri corpi che ti somigliano ma non sanno chi sei”). Il termine morgue indica in particolare la camera mortuaria di Parigi, sulle rive della Senna dietro Notre-Dame, dove si esponevano i cadaveri degli sconosciuti in attesa di riconoscimento, chiusa nel 1923. In questi versi, come a estendere i confini geografici, ci si riferisce anche alle barche funerarie e alla sepoltura nelle acque proprie di altre culture.

Il dissolvimento riguarda un’identità e un’esistenza: “scivolano ai piedi come ombre / le onde / la sorte / l’amore”. Si parla di “volti opachi in dissolvenza” e di vapore che si sparpaglia mentre si involano le pernici. E fa da contrappeso a questa evanescenza l’insistenza sugli occhi, come colti nello sforzo di mettere a fuoco, in particolare gli occhi sbarrati dalla morte: “riva del fiume che conosce solo pupille dilatate”; “piccoli occhi scavano nelle tue pupille ghiacciate”; “con così tanta galaverna negli occhi”. Andando oltre il meccanismo rodato della sinestesia, c’è come un fondersi / confondersi tra la vista e l’udito, gli occhi e le labbra, lo sguardo e le parole: “mi cresce negli occhi dell’ascolto”; “gli occhi del volto a tacere la tua estate”, “le mie labbra osservano troncarsi il tuo nome”. Gli occhi sembrano affiorare, lampeggiando, nella neve, nell’oscurità, come se il dialogo possibile avvenisse solo tra loro, tra quelli dei presenti che si occupano della salma e gli occhi sbarrati del defunto, mentre le labbra fanno la loro parte: “artiche, sigillate al detto” quelle del morto ma anche di chi compie la cerimonia in silenzio o di chi, come l’io poetante, tenta di pronunciare un nome.

Sono versi quelli di Adriana Tasin, raffinati e suggestivi, che ci portano in un tempo altro, forse il tempo di sempre (come suggerisce l’alternanza tra il passato remoto nei versi introduttivi in parentesi e il presente degli altri), che fanno balenare echi di T. S. Eliot (Death by Water), Celan (che affidò il suo corpo alla Senna) e Poe per l’ambientazione oscura e l’associazione con la Rue Morgue. Gli accorgimenti stilistici impongono di riconoscere questa scrittura come poetica, pur nella disposizione visiva che potrebbe far pensare alla prosa. Si susseguono infatti le figure foniche: le allitterazioni (“verde delle iridi”; “chiodi chiuda”; “l’abete l’abito”; le assonanze (“ombre / onde / sorte / amore; spoglie / fiore / sole”) e le rime interne (“lavate / estate”; “scompari / riappari”) e il ritmo procede come trascinato dal pensiero, dallo sguardo e dall’urgenza del dialogo, intensamente musicale. (Francesca Del Moro)