Ilomorfismo e catarsi del dolore in Serena Dibiase
La poesia di Serena Dibiase attua una puntuale interconnessione tra l’auscultazione della voce della Terra e il riverbero dell’Essere che in essa si manifesta. Per ottenere tale risultato, la poetessa esplora la natura naturans del corpo, in una prospettiva in cui la dimensione materica diventa estensione della condizione umana in senso lato. La terra, con il suo fango, la sabbia e il ghiaccio che ne stratificano l’essenza, non è concepita come luogo meccanicisticamente e fisicamente inteso, bensì come memoria corporea e identità riflessa di un’individualità in trasformazione.
L’atto fisico del cammino si realizza in una mappa sensoriale che traccia il segno di un’esistenza in cui l’essere si smaterializza e poi si ricompone in un sinolo sostanziale. I versi, in questo senso, si fanno depositari di ricordi frammentati e di un trauma che perde ogni contorno definito, sfumando nell’indefinitezza del paesaggio come correlativo oggettivo che si rispecchia nella presenza di “lei”, figura ambigua simbolo di un legame interrotto o di una parte del Sé. Si tratta dell’evocazione quasi misterica di un ricordo non cristallizzabile, ma che continua a riaffiorare continuamente in forma di immagini spezzate (la foto strappata, i tratti del volto insanguinato). È la tensione composita tra il desiderio di riconoscimento e la perdita a costituire il sostrato di una meditazione abissale sul senso di smarrimento che emana da ogni verso, laddove la ricerca di un percorso, il movimento costante e il ripetersi di gestualità e di formule come il mantra “dal confine ghiacciato la lince salta”, sottolineano il contrasto tra il bisogno primordiale (sete, fame, la ricerca d’acqua) e la continua disgregazione del corpo (maniglie, ossa, frammenti), conducendoci a una considerazione della vita come un nostos doloroso ma ricercato, per quanto vano e inevaso esso sia.
La poetica di Dibiase è improntata a una percezione sensoriale totale che mette in scena una sorta di body-drama: la lettura si fa esperienziale ed è quasi possibile sentire e toccare le parole nel continuum di una tale coscienza iperestesa e patente. Le descrizioni ricorrenti (dall’odore di cuoio e alcool alla consistenza del fango, dal sapore della terra al calore improvviso che percorre il corpo) sono perpetrate attraverso un linguaggio tessuto con fili tattili e viscerali, in un coacervo sanguigno di tensione e di dolore.
In definitiva, la poetica di Dibiase si nutre della sottile ambiguità fra realtà e visione, laddove gli elementi concreti si mescolano a figurazioni evanescenti e fugaci, creando una dimensione onirica in cui il sogno e la realtà si sovrappongono. Questo confine labile scoperchia l’indicibile sul confine tra percezione e memoria, tra esperienza vissuta e immaginazione, il tutto ottenuto tramite una struttura fuori dagli schemi tradizionali: versi liberi, pause ornamentali e frammenti che scorrono come scorci istantanei si accavallano in una sorta di rito ermetico mondazionale. Questa scelta stilistica, priva di una punteggiatura rigida, enfatizza la natura sorgiva dell’esperienza poetica, come se il tempo stesso si sciogliesse in un susseguirsi di immagini e sensazioni attraverso un linguaggio che risulta essere contemporaneamente evocativo ed ilomorfico.
Lo stile di Dibiase avvolge il lettore in un senso di straniamento come in un sudario: l’aspetto surreale del paesaggio si addentra in un territorio in cui qualsivoglia riferimento o senso di realtà si disperde in entropia. L’opera poetica di Serena Dibiase è capace di sovvertire l’ordine di realtà come un viaggio radicale in un’esperienza sensoriale della memoria, dove il corpo diventa strumento e simbolo della condizione umana, catarticamente assorta in una nenia trismegistica come ricovero e occultamento dal dolore.
(Sonia Caporossi)
la terra era attraversabile parzialmente di lato dove cresceva l’erba
si riusciva a fare qualche passo
senza affondare le piante
c’era un odore lugubre e ostinato di mancanza di umanità
con gli occhi socchiusi
si poteva sentire il fango schizzare sul viso
e in gola
il sapore della terra era dolce
riuscivo a mantenere un pensiero fisso nella mente
– camminare
c’era una casa
riverbero di voci
petrolio
ho aperto gli occhi ero sola
ho avuto la sensazione di conoscere la strada che stavo attraversando
e la sensazione contraria
avanzando l’aria diventava masticabile
la nebbia faceva il bianco indissolubile
e il bagnato
un occhio umano poteva annodarsi al bianco
§
procedere dava un ritmo fisico alle parole ma non
un suono
anche il bianco dava torpore
anche il ghiaccio
la radura era lo spazio non confinabile del mio corpo
e il mio enorme specchio
§
gli occhi si stringevano e dilatavano
in un circuito continuo automatico
le mie ginocchia erano reattive al passo e avevo sete
la mente perdeva peso
come dopo la rabbia
(Serena Dibiase, da Erbario da bocca, MC edizioni, 2024)
Serena Dibiase è ricercatrice indipendente attiva trasversalmente nell’ambito della performance, sperimentatrice sonora e poeta (ha pubblicato con Manni ed., Italia Pequod, LaGru ed. e l’ultima raccolta Erbario da bocca edita da MC ed. ‘24). Ha studiato e collaborato con artisti del teatro e della danza di ricerca, e nel tempo si è approcciata alle tecniche di bioenergetica, di yoga, alle pratiche vocali, e alla danza butoh, insegnando e componendo le tecniche. Con il nome progettuale Kratu genera le sue produzioni sonore (Nostalgia for the Androgynous, Oceani Label ’25). È trainer di pratiche corporee e collaboratrice artistica all’interno di contesti sociali che accolgono persone in condizioni di fragilità.
