IDA TRAVI – DORA PAL – NOTA CRITICA DI GIUSI MONTALI – PREMIO BOLOGNA IN LETTERE 2018

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IDA TRAVI

Dora Pal. La terra

 

 

Dora Pal. La terra è la quarta raccolta dedicata ai Tolki, saga poetica di Ida Travi iniziata con Tà. Poesia dello spiraglio e della neve (2011) e proseguita con Il mio nome è Inna (2012) e Katrin. Saluti dalla casa di nessuno (2013). Questo quarto episodio  si apre con una nota dell’autrice che rende esplicita la stretta correlazione tra parole e immagini (“Cerca le parole e troverai le immagini”). In effetti, i singoli testi possono essere considerati come quadri, fotogrammi che inscenano i monologhi di Dora Pal e qualche volta i dialoghi di lei con altri tre personaggi. Fotogrammi che sono estrapolati da una storia che non viene raccontata bensì omessa: oltre a esserci ellissi temporali viene attuata la pratica della reticenza. Sappiamo solo che è avvenuta una non ben precisata catastrofe e che ci troviamo nel dopo, nel post. Non ci viene raccontato nulla di ciò che è successo ma possiamo averne alcuni indizi attraverso le scarne parole di Dora, rivolte al bambino Kiv, al giovane uomo Zet e alla ragazza Vre (“Abitavamo la terra, lavoravamo | la terra, il bambino cresceva per terra | e adesso?”; “Un tempo stavamo di guardia | avevamo un bene da difendere, e adesso…”; “Quando c’era la mucca e il vitellino | la vita scorreva come il latte, abbiate pietà | del pulsante verde, abbiate pietà di noi”; “Ricordo l’atterraggio dell’aereo | era di notte, poi venne il giorno | ed ero ancora lì, ne sono certa!”). Si è verificata quindi una forte cesura rispetto al prima, e il presente nel quale si trovano i personaggi è incerto, difficile e faticoso. Rimangono le macerie di un paese che era agricolo e del quale sopravvivono una tettoia, un orto, una capanna, un laboratorio, una strada.  Sullo scenario desolato si stagliano i lacerti di un discorso più ampio, parole salvate dall’oblio, rivelazioni fulminee, visioni consegnate da Dora ai suoi “apprendisti”, ovvero al bambino, alla ragazza, al giovane uomo, che soffrono molto più di Dora la solitudine forzata e lo sradicamento subito  (“Sembrano soli al mondo | Però ci siamo noi, noi!”; “La luce ti darà la solitudine | sotto sotto c’è la solitudine || Scende dall’alto del campanile | la solitudine || Sola è la brocca, sola la fontana | sola la pietra, solo il ramoscello | Forte ti farà la solitudine, nei sandali | hai la solitudine || Dormono in solitudine le bestie | dormono i bambini”). Ho usato il termine apprendisti perché è palese un’attitudine pedagogica di Dora nei confronti degli altri personaggi: la sua è una sapienza antica che deve essere ascoltata e messa in pratica. Dora in effetti  si  assume il compito di insegnare loro come sopravvivere al presente: dà raccomandazioni e consigli; tramanda  una serie di riti, abitudini e azioni; li invita a credere alle sue parole; insegna  loro come non farsi sopraffare dal senso di perdita e di sconfitta; rivela come gestire la dote della preveggenza  e la capacità di nominare le immagini (“Datemi retta, quel che vi dico | non potete capirlo di schiena | devo parlarvi nel petto”; “E se non mi credete, a me che cosa importa | cosa m’importa? Io sono Dora Pal, | sono Dora, io!”; “Sei piccole ombre scendono | sei lenti animali felici | scendono in fila | nella testa sognante di Kiv || Vogliono la tua parola | vuoi scommettere? || E tu dilli quei piccoli nomi, dilli | non reagire con l’odio.”; “Date retta a quel che dice la vecchia”; “ascolta me | fa’ quello che dico io, io!”; “Taglieremo l’albero, faremo | il recinto || E poi bruceremo tutto | l’albero e il recinto”; “Quando senti quel fremito | bacia la terra, e vedrai… || Tutto quello che resta, Zet | tutto quello che vedi è sacro”; “Senza il regno dei vivi, senza il regno dei morti | Solo noi. Metti le mani qui dentro, qui nel catino, Vre.”). È infatti attingendo alle parole che le ombre si tramutano in immagini, in possibili indicazioni su come interpretare il presente e affrontare il futuro. E infine è attraverso le parole che Dora dona agli altri la sua profezia di un futuro migliore (“Sulle spalle sorgerà la preistoria | scenderà sulle assi, sul ferro | scenderà sulla fronte | sorgeranno dal bianco le fontanelle || Tutte le foglie canteranno | la nenia in pugno | finché da sotto salirà la luce | e il secolo sarà tutto illuminato”; “Vivranno gli uccelli e vivremo anche noi | becchettando sulla neve, saltellando | sulla neve, finché verrà la notte… || Quando verrà la notte lascerete il vostro posto | e verrà l’insegnamento: sotto l’ala, sotto l’ala!”; “Saliremo sui sacchi, andremo oltre la roccia | saliremo vestiti da uccelli e voleremo | apriremo le braccia, come dice l’istruzione | voleremo, ve lo giuro || Poi giù, sulla terra… rotolando, lavorando, ve lo giuro | troveremo la terra, senza versare una lacrima”; “ Con i piedi nel catino, per miracolo | saliremo lassù, oltre il cespuglio | oltre il recinto, oltre il palo della luce || Fino allo zenit, ammantati di blu cobalto | passeremo davanti alla torre rossa, passeremo || E lassù ci assolveranno per questa poesia | chiederanno il nome, tireranno il sassolino”). Gli interlocutori di Dora sono più o meno recettivi ai suoi insegnamenti: Kiv, il bambino, è il più propenso ad ascoltarla, la ragazza Vre invece fatica ad abituarsi, è spaesata e in preda al dolore; mentre Zet, sembra il più recalcitrante e perciò più volte Dora lo ammonisce e lo rimprovera (“Che me ne faccio della tua carità | avevo il nastro io, avevo già la ruota | avevo la parola che cercavi | l’avevo io quella… || Avevo il sacchetto dello zucchero | e tu… l’hai rovesciato apposta! | Tu l’hai gettato apposta, ai sette venti | per due monete, per due cicatrici di guerra”; “Dovevi chiudere tutto, Zet | la porta, la finestra… tutto! || Dovevi chiudere tutto | e non l’hai fatto, vuoi morire?”; “Lo vedi se sollevi il piatto | è sotto la tovaglia, sotto lo zerbino || Ma tu non alzi lo zerbino, Zet | hai paura || Cosa ti spaventa di più | la tempesta o lo zerbino? || – Zet, dillo! -”; “C’è un papavero nel campo | È il tuo occhio, Zet. || Tu somigli al papavero | ondeggi anche tu, nel vento || Cosa fai lì nel vento, Zet? | sei un uomo, dopotutto || E quando arriverà il bambino | gli dirai: sono Zet, dopotutto || Poi il tempo cambierà, e nel campo | torneranno le erbe dell’autunno”). Ma forse la sua disobbedienza e la sua inerzia derivano da un dolore più psichico che corporeo che non intende esprimersi a parole ma attraverso il silenzio e la passività.

Le varie interpretazioni che si possono dare della raccolta, più o meno plausibili, risultano insoddisfacenti perché, – nonostante il linguaggio utilizzato sia semplice, elementare e quotidiano, quindi a dispetto di un’apparente chiarezza -, non si è in grado di formulare ipotesi convincenti, di sciogliere le ambiguità: permane sempre qualcosa di sfuggente e di irrisolto. La ragione non riesce a farsi strada e prevale una dimensione onirica generata dalle stesse parole che sono altamente figurative. Del resto, le parole sembrano sempre descrivere una visione, occorsa in sogno oppure a occhi aperti, da Dora e, in alcuni casi, dagli altri personaggi, come dimostra la presenza del verbo vedere coniugato sia al presente che al futuro (“Dormo con gli occhi al cielo e vedo brillare | le stelle, vedo le pallide stelle rivolgersi a me | il piccolo muro d’argento brillare sul fondo nero”; “Attraverso il velo delle lacrime vedo la città | e intorno i monti, e le vaste pianure | Vedo il campo e la tettoia, tutto qui || Vedo il padre col fagotto e il blu spaventoso | delle maniche, vedo l’argento delle foglie | e il serpente, il serpente…”; “Vedo l’altitudine del petto | Vedo la terra impallidire | ma cosa vuole da noi, la terra, cosa vuole? || Vedo tutto il cucchiaio, vedo il lampo | vedo il barattolo vuoto e il bambino | che abbassa la testa, viola”; “Vedremo l’ala nera, e poi la torre nera | e l’arco del cespuglio, pagheremo la tassa || Sulla via del ritorno vedremo l’agnello | e sopra l’agnello, vedremo lui”; “Vedrai il cielo, vedrai la terra | tra un solco e l’altro vedrai la nascita”; “Vedremo sorgere il vino | vedremo volare il fazzoletto”; “Vedrà il giorno, vedrà le stelle | vedrà aprirsi la porta | ed entrerà qualcuno | chiederà: chi sei?”; “Vedrai il paesaggio, vedrai il neonato”). L’utilizzo massiccio del futuro rivela come all’opposizione tra un presente difficile e un passato più lieto se ne accompagni un’altra, quella tra il presente e il futuro, dove quest’ultimo si carica di attese ed è foriero di un riscatto rispetto a una condizione di solitudine e dolore, nella quale sono ancora troppo recenti le macerie e le ferite provocate dalla catastrofe. Forse l’uso massiccio di verbi coniugati al futuro rivela la necessità di dire la speranza, di garantire ai sopravvissuti una situazione migliore.

Ma il linguaggio non dice solo la speranza, incanta anche attraverso il suono delle parole e la loro ripetizione (che ha indubbiamente un ruolo mnemonico e al tempo stesso di mimesi del discorso orale). I testi con le loro reiterazioni, il loro ritmo interno che è anche – come ha fatto notare la stessa autrice – ritmo delle immagini, trasportano il lettore (e nella migliore delle ipotesi l’ascoltatore che ha l’occasione di udire le poesie “dette” da Ida Travi) in una dimensione atemporale, sospesa, in un nessun luogo dove agiscono personaggi universali: siamo di fatto nell’archetipo. Anche i nomi stessi dei personaggi – che sono nomi del mondo e  non riconducibili a una singola regione geografica – ci rivelano che il discorso riguarda l’umanità al di là di tempo e spazio. Gli stessi tolki potrebbero essere indiscriminatamente i nostri antenati oppure i nostri discendenti. Ciò che li caratterizza, ciò che ci caratterizza, è la solitudine, la fragilità, l’intrinseca debolezza che trova un riscatto nel linguaggio, nell’essere attraversati dalla parola (“Tu parla, come fanno le radici | lo sai come fanno le radici? || Salgono su dalla terra come se fossero morte | e poi all’improvviso ti danno il fiore, il fiore”).

L’unica ricchezza rimasta ai tolki e al contempo la sola via di fuga è il linguaggio e credo che questa affermazione di George Steiner sia in grado di esemplificare il rapporto tra i tolki e la parola, tra gli esseri umani e la lingua: “l’uomo è un animale linguistico, ed è questa singola caratteristica, più di ogni altra, a rendere sopportabile e feconda la nostra condizione effimera. […] È perché possiamo raccontare storie […]; è perché possiamo liberamente enunciare, negare, rielaborare, modificare il passato, il presente e il futuro, descrivendo diversamente i fattori determinanti della realtà pratica, che l’esistenza vale la pena di essere vissuta”. (Giusi Montali)