Colpi di Voce – Le note introduttive – Maria Laura Valente vs Maria Luisa Vezzali

Maria Luisa Vezzali

Con Il buco nel tempo, si riconferma l’elevato indice di purezza cui l’aurea lega poetica della scrittura di Maria Luisa Vezzali ci ha negli anni abituato. Sotto l’egida dei versi della poetessa nordamericana contemporanea Jorie Graham posti in esergo («It has a hole in it. Not only where I/concerntrate»), enucleati da The Surface, l’incipit dell’opera deflagra in una triplice elencatio programmatica, in cui tre esercizi di nomenclatura analogica («Elementi; Circostanti; Suoni») sono calligraficamente disposti in forma di scalinate discendenti, in cui ogni gradino lessicale conduce, per shift logico su altro piano di affinità relazionale, al livello successivo di una catabasi psico-emotiva che, nel contempo, in virtù di un ribaltamento proiettivo di stampo escheriano, si fa pura ascensio concettuale. Nel dipanarsi del testo, si assiste all’ostensione di un corpus poetico organicamente strutturato in brevi componimenti organicamente concepiti come movimenti ontologici sequenziali, titolati da numerazioni cardinali in esatta e asettica successione. Coppie di distici polimetri scandiscono l’andamento coreutico dei movimenti, la cui composita organicità si alimenta per via di interconnessione di assonanze e dissonanze concettuali («tutto quello che nasce – pensa –/produce calore […] Tutto quello che nasce – pensa – perde calore»). Da una teoria ininterrotta di frammenti, il cui incastro è demandato agli esiti di un sentire psichicizzato, affiorano sequenze in ombra-luce di interni mentalizzati, la cui calma apparente è costantemente innervata dall’incursione promiscua di elementi, naturali e antropici, dello spazio esterno e di innesti meditativi introiettanti («Il sole acceca a lampi/sull’avorio del pianoforte d’ordinanza/le mani impacciate fanno largo/tra le grida cinguettanti dal cortile»). La casa, semanticamente parcellizzata in ogni sua possibile accezione, si abita problematicamente, come il linguaggio, attraverso passaggi di mano successivi e indelebili come scarti di senso («L’impronta non passa con il passare/dei traslochi, degli inquilini/migra il corpo attraverso le digressioni/le periferie del linguaggio»). I corpi vi si muovono con la lentezza atavica delle parole-tema, il tempo scorre denso e irregolare – «un coltello che scarnifica l’ora» – involvendo l’esperibilità sensoriale della marcescenza («tutte le assenze tutti i gorghi/celebrati in mancanza di catastrofi/il cibo riempie lo spazio possibile/imputridito dentro al frigo e alle vene»). Al centro del tutto, freme immobile il «tuorlo dell’interno», che si fa insieme oggetto di osservazione e proiezione, quantum di una casa-esistenza di cui si cercano, in perpetuum, le chiavi di decrittazione. (Maria Laura Valente)