Nerio Vespertin vs Luigi Carotenuto

Bologna in Lettere 2024

Colpi di voce

Le note introduttive

Nerio Vespertin vs Luigi Carotenuto

 

Grande è colui che cammina senza calpestare gli altri, recita un famoso detto zen.

            Parafrasando la filosofia dei maestri orientali, potremmo aggiungere: grande è colui che non solo non calpesta gli altri, neppure i fiori, ma addirittura trova il coraggio di farli fiorire dentro. Di essere il centro di una rivoluzione silenziosa e inarrestabile, fatta di atti non di violenza, ma di gentilezza, di coscienza.

Luigi Carotenuto si fa portavoce di questa rivoluzione, un clamoroso atto di gentilezza verso l’universo, nel corso delle cinquantasette poesie che compongono la sua ultima silloge “farsi fiori”, edita da Gattomerlino. E il linguaggio che mette in atto tale rivoluzione è un’opera di riscoperta dell’essenziale, un centellinare attento di aggettivi e termini elementari. La luce di una profonda illuminazione spirituale invita a guardarci senza artifici intellettuali o costrutti morali: il lettore, così come il poeta, è nudo, messo al centro di ogni componimento. E al centro di ogni componimento vi è sempre un principio di meditazione, espresso con pochissimi termini, squisitamente ermetici.

E il lettore è bambino. Creatura elementare, eppure complessa, capace di qualsiasi cosa (“Bambino,/ non hai idea/ di quanto bene ci spetta”). La riscoperta di questa identità genuina, ingenua e curiosa, viene incentivata da versi-guida, veri e propri mantra di liberazione: “C’è una via/ del sole./ Percorrila./ Osala”; “Spargilo bene/ il seme del bene”, “Ridi/ e sboccia”, “Il compito del cielo/ ti abita”. L’attenzione al mondo dell’infanzia, con i suoi spazi e i suoi tempi liberi, pervade molte poesie di Carotenuto, che ha la delicatezza di guardare a quel tempo senza i filtri nostalgici del ricordo, ma come se fossero innestati in un eterno presente, una dimensione a cui tutti possiamo scegliere di appartenere: “oggi sto sul muretto/ gambe incrociate […] a musicare il sole”; ”con poco o niente/ in tasca/ ma il cuore bene in alto/ è possibile tutto, bambino”.

La simbologia dello zen è una scelta felice, in questo senso, ma non è mai fine a sé stessa: l’obiettivo dei versi non è l’insegnamento di un principio filosofico orientale, semmai la riscoperta che tali insegnamenti sono già dentro di noi e che fanno già parte della nostra esperienza. Contrariamente a quanto potrebbe portarci una certa abitudine all’elucubrazione, tipica dell’intellettualismo moderno, quello di cui si ha bisogno non è di ragionare, ma di guardare e accettare l’ineluttabile, l’incomprensibile: “mentre morivi leggevo Epicuro […] la cadenza perfetta/ dei tuoi occhi/ era già presente/ nella gioia distante/ di un altro mondo”.

In questo percorso di rinascita Luigi Carotenuto ci invita a liberarci solo del superfluo, del non necessario: la retorica del produrre o dell’avere successo: “ho appreso da te/ il lasciare andare/ vincere o perdere/ sono facce/ dello stesso torto”; “Sono qui per spezzare/ il legame, il patto sanguinario,/ l’incessante catena”.

Un percorso continuo, un paziente ritorno all’origine della propria essenza.

Come nell’Enso, il cerchio della tradizione zen, che nel suo tracciato, aperto o chiuso, rivela la vera natura di chi lo compie. La nostra, nei versi di Carotenuto, è quella di non arrenderci e di riscoprirci migliori.

Grande è colui che cammina senza calpestare i propri fiori. (Nerio Vespertin)