Colpi di Voce – Le note introduttive – Nerio Vespertin vs Letizia Polini

LETIZIA POLINI

 

Scriveva Jose Saramago, nel suo celeberrimo romanzo “Cecità”:

“Con l’andar del tempo abbiamo fatto degli occhi una sorta di specchi rivolti all’interno, con il risultato che, spesso, ci mostrano senza riserva ciò che stavamo cercando di negare con la bocca”.

E a veder meglio il comportamento di noi creature senzienti dotate di organi di vista, sembra davvero che il mondo non sia in grado di esistere al difuori del riflesso che noi stessi andiamo componendo di esso. Come se la realtà potesse svanire appena al di fuori della nostra capacità di percepirla, smettendo di essere un fenomeno immanente e limitandosi a mero riflesso del nostro io.

In apparente contrasto con questa dicotomia di fondo, fra mondo come entità e mondo come immagine, Letizia Polini rivolge uno sguardo approfondito nella sua silloge, ‘Macula’, concentrandosi sull’esperienza della vista come gestalt, ovvero come un tutt’uno indivisibile d’oggetto e di sua rappresentazione. Non a caso, il titolo stesso della sua Opera, la macula, ovvero quella piccola regione presente al centro della retina, sensibile alla luce e responsabile della visione nitida, propone la poesia come mezzo validissimo per discernere la realtà.

Procedendo per gradi, da visione laterale a visione centrale, passando poi per piccoli atti di visione, i versi della Polini indagano quelle relazioni essenziali fra le cose, che Antoine de Saint-Exupery a buon diritto definiva “invisibili agli occhi”: con una cura paziente e con una felice sintesi stilistica, si attraversano le immagini, andando alla ricerca del loro significato più autentico. Con una semplicità a tratti disarmante, l’io poetico si interroga e così facendo interroga anche il lettore, sul confine fra un ricordo e il suo peso sul nostro vissuto, su ciò che si crede di possedere durante la notte e che invece sfugge al mattino, sul senso della perdita che accompagna ogni adolescenza, quando il bambino impara a vedersi come adulto, nel riflesso di un genitore.

Al centro del campo visivo di ogni poesia c’è sempre il metodo, ovvero il come si passi dalla percezione alla coscienza: ora con metafore esemplari, ora con versi incalzanti, abilmente cadenzati più dalla spaziatura che dalla punteggiatura, si ha l’impressione di partecipare a un processo intimo di analisi e rivelazione, dove gli elementi si mescolano progressivamente, assumendo l’intensità del vissuto trascinante. La misura del coinvolgimento del lettore sta tutta nel potere delle riflessioni, di quei verbi all’infinito o rivolti al sé, più che a un egoistico “io” o a un invadente “tu”: leggere diviene un’operazione di auto analisi, un rimandare a quello specchio interiore che Saramago per l’appunto supponeva esistere dietro ai nostri bulbi oculari.

Si giunge infine al centro esatto della coscienza, a quel punto cieco dietro lo sguardo che è l’origine della realtà, intima e inconoscibile: qui scopriamo di non aver bisogno della vista, perché ciò che stavano cercando, la rivelazione finale, è già parte del nostro pensiero. Scopriamo così di aver eseguito un giro attorno a noi stessi, un esercizio doloroso di abbandono.

Ma come Letizia Polini stessa recita nelle sue poesie, c’è liberazione in questi esercizi.

E fuori dalla prigione della percezione, non esistono confini fra ciò che si può e ciò che si sceglie di essere. (Nerio Vespertin)