Colpi di Voce – Le note introduttive – Sonia Caporossi vs Stefano Bottero

Stefano Bottero

 

Il singolo fonema, la sillaba, la traslucida significanza del lemma isolato, incastonato nel verso come la lama di un pugnale che fende l’aria, la materia fonica che impregna la ricezione uditiva e non la lascia andare fino al riempimento di senso totale, il solfeggio interdetto di un versificare che si dissimula dietro le andate a capo quasi prosastiche, con gli ipermetri che poi si raddensano in un singolo fonema, daccapo, e poi la sillaba, e così via: la poesia di Stefano Bottero è un calvario di eleganza dannata. La fascinazione di un’ispirazione tersa come l’effetto di una droga gentile si distende in ogni singola parola, selezionata e accuratamente scelta senza facili ammiccamenti al lettore. In questo ambiente terso e rarefatto, sospeso in una indecidibilità delle immagini e delle forme, ma al tempo stesso pregno di un forte alone di necessità incombente e di minaccia, si respira l’aria della crisi, della sconfitta, della perdita di senso. Questo rischio di compromissione con il vuoto viene reso, sulla carta, attraverso l’utilizzo di frasi nominali e infinitive, nonché tramite spezzature sintattiche continue, che lasciano spazi aperti all’associazione libera dei significati, facendo serpeggiare altro sotto lo strato intonso della forma. Si tratta di una “parola che nega sé stessa”, come scrive l’autore, quasi ad avvoltolarsi in un’involuzione che rende il nome un puro fatto interiore, “come prossimo alla cenere”. La degenerazione molecolare del testo sottintende una deregolamentazione dei padri putativi del Novecento che pure permangono nel dialogo col presente, o meglio, in ciò che ne è rimasto. Nulla è lasciato al caso, ma nemmeno alla causa: il nesso condizionante-condizionato si sfilaccia in domande che rimangono prive di una risposta univoca e confortante, il Novecento collassa su sé stesso, la stesura del verso ne è il feretro, l’urna che contiene solamente definizioni prossimali della realtà. Alcool, droga, in questi versi di Stefano Bottero sono simboli di vita invisa e invissuta, contrapposizioni dei contraddittori e dei contrari sulla tavola logica che decodifica il presente, la cui risoluzione in termini di inferenza rimane come un punto di domanda. Il tempo, barlume di ordine che rimane a scandire il senso, non è più dimensione fondante e fondamentale. Rimane solo il “ritardo” che si mostra “indispensabile”. Niente permane nel niente, se, per quanto riguarda tutto lo scarto residuale del mondo che Bottero insegue e persegue nel verso, non resta alcunché di decidibile se neanche il “domani non c’è”. (Sonia Caporossi)