Bologna in Lettere 2019 – Appunti, letture, note – Raffaela Fazio

 

 

LA POESIA METASIMBOLICA DI RAFFAELA FAZIO

 

 

Per Cassirer, la “funzione simbolica” fondamentale del linguaggio è quella sottesa alla capacità di sintetizzare la molteplicità del reale attraverso attività umane come il mito e la conoscenza razionale. Se concepiamo normalmente il simbolo come un significante che esprime un significato concettuale ad esso diverso eppure collegato per convenzione comune, potremmo affermare con una certa sicurezza che il filo conduttore della poesia mitologica e biblica di Raffaela Fazio è l’attitudine al metasimbolismo, inteso come superamento della dimensione puramente astraente del symbolon, il quale da mero oggetto che significa altro si ricondensa e si raggruma in carne e sangue, da universale astratto si reincarna in universale concreto, ovvero in un exemplum di volta in volta individuale, pregno di ethos e pathos, da cui attingere come fosse un campionario o un lessico fondamentale di vita vissuta.

In effetti, attraverso la poesia del mito e dell’archetipo Raffaela Fazio riesce a fornire il campionario esistenziale della natura umana in una prospettiva fenomenologica di grande profondità e purezza. I libri attraverso cui la poetessa tenta un approccio metasimbolico alla dizione di questa vasta materia sono due: Ti slegherai le trecce (Coazinzola Press 2017) e Midbar (Raffaelli Editore, 2019).

In Ti slegherai le trecce, Fazio si concentra sul mito greco come mezzo di descrizione e interiorizzazione dell’universo femminile, fissato ai punti fermi di un’indagine psicologica che penetra senza remore nelle intime motivazioni di gesti, situazioni, punti di crisi e di sutura di istanti metacronici che lasciano sospeso il giudizio sul personaggio femminile di volta in volta considerato per approfondire, piuttosto, la natura umana universale dello stesso, la propria istanza mitologematica, come materiale mitico che viene continuamente rivisitato e riscritto in modo da assumere varianti che possano sempre, da un originario significato primigenio, adattarsi alla sensibilità anche contemporanea. In Ti slegherai le trecce si respira dappertutto questo afflato kerényico e junghiano, la volontà di prendere spunto da una materia archetipica sospesa nel luogo e nel tempo, incarnata esemplarmente da figurae (forme che, etimologicamente, vengono plasmate) che assumono una posa intercalata tra l’istante dell’attesa e la deflagrazione cosmica del caos. Figure tra il tragico e il drammatico, a cui la poetessa si rivolge con un tu apostrofico di assoluta intensità partecipativa, che incarnano l’anelito alla catarsi e alla cum-prehensio, ovvero l’attimo estetico, emozionale, il balenio improvviso in cui cogliamo di colpo l’essenza esperienziale della vita.

In Midbar, la poetessa approfondisce la materia biblica con un piglio ancora in parte archetipico ma più filologico, recuperando la sostanza della figurazione veterotestamentaria attraverso la visione prospettica dell’interpretazione ebraica originaria, allontanandosi in parte, per questo tentativo di ritorno ermeneutico, dalla lettura cristiana a cui siamo maggiormente abituati. Nonostante l’attinenza filologica ai Bybla, tuttavia, ogni singolo personaggio ed episodio trattato restituisce il senso pieno del Testo Sacro in una modalità che supera il semplice inquadramento religioso, e deve essere inteso come enucleazione di punti nodali della coscienza collettiva di un popolo (non già semplicemente dell’inconscio, come voleva ancora Jung), che potrebbe fungere da modello primitivo coscienziale di tutti, modello di riferimento del quale le manifestazioni sensibili del reale fenomenico non sono che filiazioni successive, in cui riconoscersi e ritrovarsi nel basamento di senso fondante della propria primigenia umanità, pur essendo e rimanendo ognuno ancorato alla propria personale sostanza culturale. In questo senso, Midbar supera il contenuto stesso del testo e, come ogni poesia metasimbolica che si rispetti, diviene punto di condensazione e di sfogo delle tensioni esistenziali dell’essere umano in genere (esattamente come avveniva in Ti slegherai le trecce) al di là dei riferimenti immediati e delle concrezioni figurali in esso impersonate, come un dis-velamento della natura fàtica dell’esserci che per essere colta, deve essere detta, incarnata, fatta persona, nel passaggio fondamentalmente etico che trapassa sempre, per Raffaela Fazio, dall’apparenza all’ostensione, giacché, come diceva Papini, “l’arte non ha senso se non si fa ostensione del reale”. (Sonia Caporossi)

 

 

 

Da Ti slegherai le trecce

 

 

Circe[i]

 

 

Un lampo negli occhi

come d’oro

ma tra le unghie

la più vorace

notte.

Rapace

nel volteggio

tracciavi circolare

il tempo che si chiude

sulla preda.

Tu stessa prigioniera

dell’incanto

che mantiene fermo

ciò che crea

e annulla nel possesso

chi penetra

nel cerchio più segreto.

 

Ma niente

nell’amore

è vivo se mansueto.

Niente ti appaga

se è inganno o solo

oblio.

 

Lo sai

da che l’ospite nuovo

ti si è scagliato contro

da guerriero.

Sulla sua spada

hai visto

che eri nuda

e l’isola

si è infranta. Il talamo

si è aperto

al divenire, alla fiducia.

 

Il fuoco

sposa l’ombra e l’ombra

non turba

più la luce

la spoglia del miraggio:

connubio tra gli opposti

come l’erba

dalle radici nere

e il fiore bianco.

 

Il gusto si conosce

dall’assaggio

ma il mistero

soltanto dal suo interno.

 

A lui che ti ha svelata

hai dato in dono

la via verso la morte

e poi il ritorno.

 

 

*

 

 

Eco

 

 

Nemiche le parole.

Le tue

di un tempo

troppe

erranti

più distanti

sparse a distrarre

il suono dal suo senso

 

ti hanno portata

fuori

(inganno che s’inganna)

e là ti hanno lasciata

senza peso

o un centro

a cui tornare.

 

Con quale nome

potrai farti chiamare

se lo hai perso?

Con quale voce

cercare il desiderio?

 

Solo un miraggio.

Ti struggi

per amore di un riflesso

tu stessa

riflesso del tuo vuoto.

Non più corpo

ma urto che ripete

e poi si spenge.

 

Sei l’altrove inconcludente

il non-possesso

l’aggiunta

che non aggiunge

niente.

 

 

*

 

Alcesti[ii]

 

 

Un istante

rivela la vita.

Da quella improvvisa

fessura

fiotta il giorno

a ritroso

nella notte

attinge il suo senso

e l’addensa.

 

Chi è il tuo sposo?

Il suo riso

negli anni, il portarti

alle labbra il boccale

e la reggia

ospitale…

Era tutto una fuga.

E l’amore un pretesto

per scordare

se stesso.

 

Anche adesso

non risponde all’appello

non accetta l’estremo

confine

che suggella il suo nome.

 

Tu capisci.

E di colpo ribelle

offri il dono

chinando la testa:

oltrepassi la soglia

al suo posto.

Che scompaia

il tuo volto, lo specchio

che deflette

perché il buio

rimandi all’amato

il suo vero sembiante.

 

Sorridi e ti aspetti

che nel lutto

l’uomo solo

rinasca, s’impasti

di vuoto e di forza.

Non più vino, né canti

o battaglie. Basta

il nudo lamento

accanto a due figli

la fatica

della propria paura

il sedersi sul trono

di gemme o di ortiche

che ha apprestato la vita.

 

Non esiste un’uscita

dall’ombra

che ci forma e ci spetta.

 

 

*

 

Cassandra[iii]

 

 

Non pieno

torrente

non voce che esonda:

un rivolo di sassi

si è rotto

dentro il ghiaccio

passando dalle tempie.

 

Cosa ascolti?

Sei un corso senza estuario

senza ebbrezza.

Dove il furore

di chi si dà all’ignoto?

Ti sbrecci

inutilmente

 

perché non fosti amante

del dio

che ti voleva

nella luce.

 

A lui rubasti

la notte non la cetra

un freddo di faretra

il sibilo la freccia dello sguardo

parola

che si perde.

 

Ma il tempo ti converte.

Ora ti arde

una visione tersa

fatta vera

soltanto dal dolore

e sai

che non puoi farne dono.

 

Sei sola

al centro del tuo squarcio.

 

(Il futuro

non vuole scorciatoie

ma una conquista

lenta

dell’uomo che nel buio

dal passato

cammina sulla brace).

 

E taci

 

come quando

più bella più forte

rimarrai in silenzio

davanti

alla tua morte.

 

 

**

 

Da Midbar

 

 

In origine

 

 

L’albero[iv]

 

 

Ancora sento

il canto degli albori.

Nella mia chioma

il buio

soffiando su se stesso

non si separa dalla luce.

Come fossi

l’unico rimasto

privo di confine

nel gioco del creatore.

Io – l’indistinto

non ho nome

e nessun vuoto mi misura.

Eppure ho nostalgia

di una lentezza

mai esistita

dall’occhio che mi volle

alla mano

che fu subito bocca.

Io sono l’albero-frutto

succoso

in tutte le mie parti.

 

Da me si passa

per morire.

La donna lo sapeva:

per generare

barattò l’eterno con la storia

s’iscrisse nella fine

e offrì un inizio.

Ora si porta dentro

il bene e il male

uniti

come un primordiale

abisso.

Tra lei e il mondo

non c’è più distanza

non c’è solo visione

ma un gusto sempre nuovo

di coscienza

– sapienza del dolore.

 

Il suo peccato?

La fretta nell’avermi:

non attese

davanti al desiderio

e non ne condivise

la lotta

il necessario incanto.

 

Io sono

la camera oscura

di un possesso sfalsato.

 

Sono la memoria

di un sapore mai svelato

inguaribile

 

la nudità

 

un tempo commestibile.

 

 

*

 

Babele

 

 

Cercammo un nome

per paura della morte

squadrammo la parola.

E la parola-argilla

scordò che era terra

reclamò l’altezza di una torre

divenne più preziosa della vita.

Per lei

rinunciammo al tempo del riposo

alla carezza, allo spazio

che differenzia il senso.

Finché

fu il mondo un’evidenza

senza volto

– rumore

di fondo

che nessuno ascolta.

 

Ma nella dispersione

capimmo

che il nome dura solo

se dalla voce affiora

l’uomo.

 

 

*

 

Un popolo

(il canto di Mosè)

 

 

“Mosè disse al Signore: «Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono stato né ieri né ieri l’altro e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua»” (Es 4,10).

 

 

 

Quante volte ti ho guardato

dall’insonnia

come si cerca

di tenere insieme

nella mente una parola

e invece

quella si spezza nel chiarore

balbuziente.

 

Quando la voce sogna

riunisce

il gregge dei suoi suoni

e il tempo le obbedisce.

 

Ma tu, popolo mio

ti spargi

 

come il mio nome

confuso si divise

tra il seno e il fiume

il trono e poi il deserto.

 

Adesso

in te

esco dai miei confini.

E non rinuncio

 

perché ti vedo:

sei tu, popolo incerto

che mi pronunci

passo a passo.

 

Infinito, incompiuto

il cielo

ci presta un tetto provvisorio

come il palato

su cui la lingua batte

e sfiora

il senso.

 

 

*

 

 

Dal legno[v]

 

 

“Assalonne cavalcava il mulo; il mulo entrò sotto il groviglio di una grande quercia e la testa di Assalonne rimase impigliata nella quercia e così egli restò sospeso fra cielo e terra […] Allora Ioab […] prese in mano tre dardi e li ficcò nel cuore di Assalonne, che era ancora vivo nel folto della quercia. […] Allora il re fu scosso da un tremito, salì al piano di sopra della porta e pianse; diceva andandosene: «Figlio mio Assalonne! Figlio mio, figlio mio Assalonne! Fossi morto io invece di te, Assalonne, figlio mio, figlio mio!»” (2 Sam 18,9.14 ; 19,1).

 

 

 

Perché

non vibra più la corda

capace di distrarre

la schiera dei fantasmi?

 

L’unica nota

è un fruscio feroce

– orrendo stormire di fronde.

Oscilla dal legno

il tuo corpo ribelle

al cielo e alla terra.

Quanto vuoto

invano lo circonda! Come pende

in muta accusa!

 

Irresoluto fu l’amore

col quale non distinsi

i vostri tre silenzi:

la violenza

il tuo sdegno

la vergogna innocente.

Ora li sento

uno ad uno

svuotarmi la testa.

Nel suo incavo chiamo

in soccorso la follia.

 

Ma il ramo non si spezza.

Al suo posto

uno schianto inerte.

 

Dentro il petto la voce

è un peso morto.

 

 

 

[i] Circe, figlia del sole, Elios, vive su un’isola, in un mondo e in un tempo chiuso, circolare. A questa circolarità allude già il suo nome, che deriva dal femminile del greco kirkos, sparviero, rapace che avvicina la preda con volo concentrico. Circe alletta i sensi e li inganna, trasforma gli ospiti in creature selvagge e ibride. Poi arriva Ulisse: grazie all’erba moly donatagli da Ermes, l’eroe è immune agli incantesimi. Quando le si avventa contro con la spada sguainata, Circe cede. E gli si concede. Più tardi gli indicherà persino la via segreta verso l’Ade e, giunto il tempo del commiato, gli spiegherà la rotta del rimpatrio.
[ii] Apollo fa un dono al re Admeto: gli concede di sottrarsi alla morte, una volta giunto il momento, a patto che qualcuno prenda il suo posto. Davanti alla richiesta del re, nessuno acconsente, neppure gli anziani genitori. Sua moglie Alcesti è l’unica che si offre di morire per lui.
[iii] La colpa di Cassandra è aver ambito al potere di Apollo, rifiutandone però l’amore. Dura è la punizione del dio, che, dopo averle concesso il dono della profezia, è stato da lei respinto: Cassandra vedrà ciò che gli altri non vedono, ma la sua parola non sarà mai ascoltata, mai creduta. E dura sarà la sua fine. Preda di guerra di Agamennone, la profetessa lo segue a Micene, consapevole che là li attende la morte, per mano della regina Clitemnestra.
[iv] Secondo il midrash, l’albero della conoscenza del bene e del male è l’unico albero interamente commestibile, nel tronco oltre che nel frutto.
[v] David, il re poeta che ha saputo addolcire la follia di Saul con il suono della lira, si confronta con la propria impotenza davanti alla morte del figlio ribelle Assalonne, trafitto dal suo stesso generale, Ioab. Assalonne aveva ucciso il fratellastro Amnon per aver usato violenza contro la sorella Tamar.