Colpi di Voce – Le note introduttive – Sonia Caporossi vs Sacha Piersanti

Sacha Piersanti

 

L’introspezione nella forma che dice io, nella poesia ultracontemporanea, viene spesso attaccata come forma d’espressione deteriore in quanto oppressa da quel lirismo d’impronta novecentesca da parte del quale si ritiene che tutto sia stato già trasmesso a sufficienza. La poesia di Sacha Piersanti si manifesta come la felice eccezione che falsifica la regola, la riscrive e la sistema nell’impianto recuperato e rinnovato di un’esigenza interiore, quella del mettere ordine tra emozione e sensazione, come istanza davvero ineliminabile del dire. Se l’ascesa e il declino dell’io nascondono spesso l’uso e l’abuso dello stilema e del topos letterario, Piersanti ne rifugge proponendo la prima persona singolare come uno specchio d’interrogazione che si pone di fronte all’esigenza di scomposizione prismatica del detto, con una mera funzione ostensiva: la manifestazione fenomenologica di quel “mio d’io” che è, contemporaneamente, soggetto e oggetto d’osservazione, viene perpetrata attraverso la disillusione circa la domanda originaria che trasforma lo scavo in una posizione filosofica. Come scrive il poeta: “la vidi – giuro, vidi / l’origine del tutto: / quel niente che noi siamo / senza la parola / a illuderci la mano”. La parola poetica, quindi, permette lo svincolamento da un nichilismo assoluto di impianto archetipico e consente la liberazione entropica di quel residuo di umanità che permane sul fondo del corpo e che lo permea come un guanto. Il corpo, in effetti, oltre all’ostensione offertoriale dell’io, è l’altro oggetto privilegiato d’osservazione nella poesia di Piersanti. Impossibile, allora non perseguire l’urgenza straripante della “marea della parola” che impedisce di starsene zitti e di adeguarsi ai dettami di una vita normalizzata dalla divisa, maschera che si indossa fintanto che si finge di essere quell’io che è risvolto speculare dell’io riflesso dall’intelligere di un altro. Ecco, allora, che l’io si disperde nel più vasto oceano della metasingolarità, nel superamento dei confini dell’egocentratura poetica di turno, assumendo volto e funzione precipua d’interrogazione dell’altro-da-sé, in cui il corpo si fa raggrumo essenziale della propria natura naturata e dell’identificazione originaria, come domanda primigenia d’appartenenza, dolorosa e ferma, alla specie umana: “L’unico colpo / che mi scoppia il corpo dentro / è veder rombare  / questa spirale divina, / la mia doppia elica  / di ogni altro Mestesso”. (Sonia Caporossi)