PAOLA SILVIA DOLCI – I PROCESSI DI INGRANDIMENTO DELLE IMMAGINI – NOTA CRITICA DI DANIELE BARBIERI – PREMIO BOLOGNA IN LETTERE 2018

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Nel 1929, l’esperienza di un viaggio in America porta Federico García Lorca a scrivere Un poeta en Nueva York. È un libro molto diverso da quelli che ha scritto prima, e vi si susseguono e accavallano immagini molto dure e molto forti, con accostamenti di senso imprevedibili. Viene considerata un’opera surrealista, probabilmente il miglior prodotto del Surrealismo spagnolo.

È lo stesso anno, quello, in cui, in tutto un altro mondo, Frida Kahlo sposa Diego Rivera e inizia di fatto la sua carriera di pittrice. Il suo soggetto, nei venticinque anni successivi, sarà con grande frequenza un’immagine straniata di se stessa, un vedersi da fuori che permette di guardarle dentro. Anche la sua, in generale, è considerata un’opera surrealista, probabilmente il miglior prodotto del Surrealismo messicano.

Tra le tante citazioni che attraversano il libro di Paola Silvia Dolci, I processi di ingrandimento delle immagini, non compaiono né il poeta spagnolo né la pittrice messicana, e nemmeno si potrebbe davvero dire che lo stile di questo libro vada ricondotto ai loro. Eppure c’è qualcosa, nel procedimento di Dolci, che può essere ricondotto ai loro procedimenti, o forse qualcosa che rimanda a quelle atmosfere. Non è certo solo il fatto di iniziare a New York, anche se pure questo qualche suggestione in merito la crea. È piuttosto, soprattutto, l’amore per gli accostamenti inaspettati, e spesso sorprendenti, con immagini a volte violente, ma soprattutto violente relazioni tra concetti che si trovano vicini e resi vividi proprio da questa vicinanza.

Non so quanto abbia senso parlare al giorno d’oggi di surrealismo (ai principi del linguaggio automatico, della liberazione dell’inconscio, che ne erano la base, non crediamo più molto, di questi tempi), e tuttavia c’è, nel linguaggio di Dolci, qualcosa che rinvia a quella temperie, a quella deliberata (teatrale) crudeltà, a quel medesimo senso di straniamento.

Non uno, ma sei eteronimi si spartiscono le pagine di questo libro. Del resto, il sottotitolo recita Per un’antologia di poeti scomparsi. Morti giovani o meno giovani, di malattia, incidente, causa ignota o suicidio, i supposti autori di ciascuna delle sei sezioni sono altrettanti poeti, altrettante maschere – se vogliamo, altrettanti autoritratti deviati. Le loro parole ci arrivano come se fossero tutte, più o meno, estreme parole. In ogni caso, ci appaiono come voci colte dopo la scomparsa, come recuperate fortunosamente dall’oblio.

Le loro parole sono inoltre tutte, più o meno, zeppe di parole altrui: si incomincia con Artaud e si finisce con Eliot. Si tratta non solo, anzi non principalmente, di citazioni famose: più spesso sembrano parole pronunciate a margine, colte anche loro quasi per caso, a loro volta insomma, se pur in un senso differente, estreme parole, parole dall’estremità del mondo.

E alla fin fine, chi parla qui? Chi dice io? Dolci parla con la bocca di morti che citano altri morti, con la bocca di poeti che parlano attraverso altri poeti e pittori; ma non con l’aria di dire grandi cose: è la minuzia del quotidiano a dominare in questi versi, è lo sconcerto per la normalità delle piccole cose nel loro apparire improvvisamente singolari, improvvisamente rivelate dall’accostamento conturbante, improvvisamente spostate, viste da fuori, attraverso una nuova voce.

È come se la poesia non potesse essere altro che un fantasmagorico gioco di specchi, in cui l’io si riflette mille volte senza permetterci mai di sapere quale ne sia l’immagine reale, o se anche solo ce ne sia un’immagine reale – o se reali non lo siano piuttosto tutte, proprio nella loro obliquità, perché non possiamo che parlare attraverso la voce d’altri, perché sono sempre altri che parlano attraverso di noi, perché tutti coloro che sono scomparsi continuano a parlare attraverso di noi, e la nostra voce è sempre la loro, e la loro voce è sempre la nostra.

Quando ho iniziato a leggere questo libro, ho per un po’ creduto davvero che si trattasse di un’antologia di poeti scomparsi, e questo senso di conclusione, di perdita anticipata, pesava sulle parole che stavo leggendo. Ma quando poi ho iniziato a comprendere che si trattava solo di un gioco, questo senso non è scomparso: alla fine, Dolci gioca davvero con i morti, con barocco spirito messicano, proprio come Frida giocava con i suoi ritratti al limite della vita. Riproduce se stessa in voci che non hanno più voce, o che sono magari ridotte alla sola voce scritta. Io è un altro? (Daniele Barbieri)

 

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Premio Bologna in Lettere

IV EDIZIONE – 2018

SEZIONE A

Opere edite

Presidente della giuria

Enzo Campi

Giurati

Giusi Montali, Daniele Barbieri

Sonia Caporossi, Enea Roversi, Enzo Campi

FINALISTI

Gabriel Del Sarto

Il grande innocente

(Nino Aragno editore)

Ida Travi

Dora Pal

(Moretti & Vitali)

Alessandra Carnaroli,

Ex-voto (Oèdipus)

Lella De Marchi

Paesaggio con ossa (Arcipelago Itaca)

Paola Silvia Dolci,

I processi di ingrandimento delle immagini

(Oèdipus)

Fabio Orecchini

Per Os

(Sigismundus)

PRIMO CLASSIFICATO

Alessandra CarnaroliEx-voto (Oèdipus)

SECONDO CLASSIFICATO

Ida TraviDora Pal (Moretti & Vitali)

TERZO CLASSIFICATO

Fabio OrecchiniPer Os (Sigismundus

 

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