Premio Bologna in Lettere 2019 – Le note critiche – Roberto Ariagno / Maria Luisa Vezzali

Premio Bologna in Lettere 2019

Sezione C (Poesie singole inedite)

Roberto Ariagno

Finalista

 

 

I tre testi presentati da Roberto Ariagno – già segnalato per l’opera edita nel concorso di Bologna in Lettere dell’anno scorso con Disarmare il nome – si distinguono per il rigore con cui proseguono la riflessione sui limiti della parola e della conoscenza impostata nel volume del 2017. Quella che emerge dalla lettura di questi versi lunghi, che ricordano per qualche ritmo e stilema (notevole in questo senso è l’anafora delle subordinate condizionali, «se» / «e se» / «se», scardinata da ogni apodosi prevedibile) la “forma-cubo” in cui si comprime la scrittura di Amelia Rosselli, è, per dirla con Walter Benjamin, una “scepsi fruttuosa”, la quale parte dalla diagnosi del malessere proveniente dalle «parole che non arrivano mai a toccare, mai all’altro», sonda «la vanità dell’utile e dell’inutile», per poi ribaltarsi in un acuirsi della percezione ordinaria capace di restituire una intensa ricchezza di fenomeni comunicabili. In tal senso si comprende l’icasticità di quella tendenza all’elencatio, già evidenziata in Disarmare il nome da Sonia Caporossi, che sciorina immagini di ordinarie solitudini («il traffico delle auto il merlo in giardino / il vecchio sul balcone di fronte in cannottiera»…), illuminandole con una luce d’assenza non dissimile da certi quadri di Hopper. La bellezza è «in fuga», ma del suo transito resta enigmaticamente, caparbiamente una traccia, «un segno» da cercare. Questo respiro del pensiero, rifiutando ogni forma di alterigia gnoseologica, finisce così per sprofondare in una sorta di contemplazione/meditazione che produce una chiarezza superiore, dettagli taglienti come correlativi oggettivi: «l’alterità di una palma fra le altre palme», «l’attimo d’equilibrio della gazza sulla verticale sottile / di un ramo culminante»… E’ qui in gioco ciò che si può o non si può conoscere, ma, anche se «non c’è più forza» e i nomi slittano, rimane comunque l’autorevolezza di un «mirabile» in grado di conservarsi «a lungo nello sguardo». Ci si potrà persino, tristemente, difendere dal «sapere il sale» dell’altro – sia questo istanziato in un altrui remoto, i «combattenti della frontiera», o più prossimo, in un tu che catullianamente sedeva e rideva davanti al soggetto in uno spietato pomeriggio di provincia –, perché possediamo sempre la protezione dei «nostri salotti» e il «caldo dei nostri appartamenti» a tutelare l’ottundimento borghese. Ma per quanto faccia paura affrontare il rischio di «slogarsi nell’incontro», un sibilo disturba le nostre stanze. E quel sibilo, slittando di piano, si incarna nella tessitura fonica dei testi con un’allitterazione carsica ma martellante delle sillabe “sa” e “so” («chiuso», «sono», «solo», «soli», «sanno», «salotti», «sommato»; «usare», «preso», «sordo», gli omografi «sale» sostantivo e «sale» verbo…). A ribadire che, anche se il soggetto batte in ritirata, il tu manca all’appello, la sintassi si amputa e le parentesi non riescono a chiudersi, quanto sfugge alla concettualizzazione può raggiungerci, magari, grazie alla perentorietà del suono. (Maria Luisa Vezzali)