Note e appunti sui segnalati al Premio Bologna in Lettere 2019 – Sezione C

Elisabetta Sancino, La regina

 

 

Le tre poesie di Elisabetta Sancino hanno in comune l’attenzione ai minimi dettagli, in apparenza poco rilevanti, della quotidianità e il loro aprirsi a dimensioni ulteriori, tramite accostamenti e metafore sorprendenti. La poesia La donna del reading si apre nominando le stoviglie che tuttavia suggeriscono un contesto più singolare rispetto all’ambiente domestico, dal momento che vengono lucidate con la pioggia. Un altro particolare apparentemente banale è la busta dell’Oviesse, in cui vengono però riposte sciarpe rosse come amarene, un paragone che, per via sinestetica, determina uno slittamento dal senso della vista, che coglie il riferimento cromatico, a quelli del tatto, del gusto, dell’olfatto.

Il colore torna a richiamare l’attenzione nella poesia dedicata alla madre: è il viola funebre di una mano illividita dalla bassa temperatura. La mano appartiene all’io narrante ma, mentre traccia disegni nell’aria, sembra un corpo estraneo dotato di una vita propria. Il dettaglio più interessante qui è forse quello dei vecchi che escono senza maglione, citati come oggetto di predilezione insieme ai bambini e alle formiche. Questi tre elementi formano un insieme in apparenza casuale ma in realtà potenzialmente riconducibile alle tre età di una persona: l’infanzia, la maturità segnata da una ripetitiva operosità e infine la vecchiaia, il tempo della spensieratezza e delle sfide, come quella di uscire d’inverno incuranti del freddo.

Se la prima poesia suggeriva un percorso su strade cittadine e la seconda una stanza da letto immersa nell’oscurità, il componimento che dà il titolo a questa mini-silloge si sospende a metà tra una dimensione naturale dal sapore fiabesco – il bosco di olmi con arcani alfabeti incisi nella corteccia e l’immancabile lupo delle fiabe – e uno scenario urbano degradato, fatto di fast food affollati, discariche e canali di scolo, popolato da topi e nutrie di fiume.

I pochi dettagli menzionati in ciascuna delle tre opere, come rapidi tocchi a definire gli ambienti, impostano l’atmosfera all’interno della quale agiscono le persone a cui è dedicata ogni poesia. La donna del reading è un autoritratto che, come è tipico di questa autrice, contiene un riferimento alla propria scrittura, ma stavolta appena suggerito, più discreto che in altre occasioni. Una dichiarazione di poetica che comporta una presa di distanza dall’enfasi sentimentale e dalla presunzione di poter dire di qualcosa che è estremamente lontano, altro da sé.

Anche qui pochi accenni bastano a tratteggiare un ritratto di donna e artista, timida e insicura, che siede in ultima fila e cerca di fare tesoro del reading del poeta più anziano e noto, usando con gesto un po’ infantile le dita per memorizzarne le parole e contarne i sospiri, qui rappresentativi di uno strazio esibito e fasullo. Protagonista di A meno quattro è la madre scomparsa ma così vividamente presente nel ricordo da spingere l’io narrante a disegnarne il volto nell’aria. Anche qui, pochi e ben studiati dettagli ritraggono una donna attiva e amorosa, che sorride fino all’ultimo istante e posa uno sguardo carico di dolcezza su tutto ciò che la circonda. Infine, nella Regina è ritratta una sorta di “sovrana dei bassifondi”, un personaggio mitico che possiede il dono della preveggenza e di un’arcana sapienza naturale. Sa leggere i fondi di caffè, attività dalla quale trae probabilmente sostentamento, e reca tatuati sotto le palpebre misteriosi alfabeti mutuati dalla corteccia degli alberi.

In tutti e tre i componimenti la protagonista si definisce in relazione a qualcun altro ed è da questa dinamica che scaturisce la riflessione al cuore dei versi: La donna del reading lascia emergere una propria poetica mediante il contrasto tra l’anziano scrittore e la donna che assiste alla sua conferenza; in A meno quattro, l’io narrante si rivolge alla madre per ricevere un monito ad amarsi e ad amare la vita, mentre nella Regina si aspetta il verso conclusivo per assestare un affondo a un generico tu, probabilmente un’ideale platea di persone che guardano con disprezzo questa donna senza possedere nessuna delle sue qualità, in particolare la dignità e la fiducia in sé stessa.

Sul piano formale, le poesie sono accomunate dall’utilizzo di una fitta trama di assonanze poste prevalentemente a fine verso, in luogo della rima nella metrica tradizionale, che garantiscono la tenuta musicale rafforzando le chiuse. Nella Donna del reading, gli ultimi tre versi si riducono gradualmente in un calando; in A meno quattro la parola stanotte chiude circolarmente il componimento riportandoci all’apertura dei versi, mentre il distico finale assonanzato della Regina genera una chiusura brusca che rende ancora più tranchant il j’accuse rivolto al lettore. (Francesca Del Moro)

 

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Saragei Antonini, I peri

 

 

«Pace per voi per me / buona gente senza più dialetto» scriveva nel 1957 Andrea Zanzotto, in una stagione, per altro durata a lungo, in cui le lingue regionali erano confinate, tranne rarissime eccezioni, nei dipartimenti di Linguistica e Filologia delle università.

Che oggi la produzione in dialetto “non scorti più la poesia in lingua”, è un dato accertato, se si considera la ricca messe di autori di diverse generazioni che hanno compiuto questa scelta, da Loi a Nadiani, da Zuccato a Villalta, fino a Cantu maru di Sergio Rotino o a Tàşighe! di Nina Nasilli (entrambi usciti nel 2017), tanto per citarne alcuni, che in questo modo reagiscono all’unilinguismo appiattito dominante in tanta lirica contemporanea, o alla freddezza solipsistica di certa “poesia di ricerca” che sembra non riuscire a comunicare altro che la propria disperazione.

Nei testi in siciliano presentati da Saragei Antonini – per altro scrittrice diglossica che ha al suo attivo apprezzate sillogi in italiano – si percepisce fortemente la necessità di esplorare l’aspro terreno di un mezzo espressivo che possa dirsi “veramente proprio” e che riesca a conservare proprietà nutritive anche quando «il nostro pane quotidiano / è diventato duro». Questi versi sono infatti percorsi da “fendenti fonici” che, in particolare nell’ultimo testo, paiono sciabolare il silenzio sulle orme di Jolanda Insana che superbamente lo sfidava, sia quando con lo stridio delle “i” mimano il grido che si eleva contro un rivolgimento cosmico

 

 

’I stìddi si ’ncudduriànu – / ùra sciogghici i cieli
le stelle si sono attorcigliate – / ora sciogli i cieli,

 

 

sia quando il percuotere della “u” fa calare il buio sul mondo

 

 

tanti luci addumàti fanu scuru
tante luci accese fanno buio,

 

 

sia quando il planare in explicit del testo su una quadruplice serie di “a” spalanca possibilità vaste come una pianura

 

 

’a luci sàuta – / comu ’na piccirìdda,
la luce salta – / come una bambina.

 

 

Dal punto di vista dei temi profondi che tramano questi testi, le prime battute de “I pèri” offrono un elogio della rinuncia alla funzionalità gretta e allo svilimento opportunista dell’altro

 

 

I pèri mi talìu quannu sunu ’nta l’aria – / e si ponu ’ncucchiàri
/ sulu quannu sunu ’nta l’aria – / nun fanu strata – / ma si ponu tuccàri sinza cascàri,
i piedi li guardo quando sono in aria – / e si possono unire
/ solo quando sono in aria – / non fanno strada – / ma si possono toccare senza cadere,

 

 

in nome di un’aspirazione all’alto e alla fusione che non riesce a concepire il suo opposto

 

 

e ùra ca ni lassammu ne capìsciu,
e ora che ci siamo lasciati non li capisco.

 

 

Nel testo centrale, invece, siamo invitati a non ignorare la «voce del frigorifero» anche se ci agghiaccia, perché la nostra comune condizione esistenziale è in fondo quella di attraversare le «sale d’aspetto» di un dolore che stordisce, ma al quale si deve pur rispondere in qualche modo quando chiama. Una risposta che, per Antonini come per ognuno che si voglia poeta, risiede comunque nella persistenza della parola che si spacca e sanguina. Così come l’autrice aveva già splendidamente descritto nella raccolta La passione secondo (Forme libere 2017):

 

 

Il pane si spezza con le mani / il ramo con il vento / il sasso con la pazienza
/ il corpo con la malattia / l’odio con la preghiera / la sedia con la vecchiaia
/ il terrore con la voce / la candela con la caduta / io e te col silenzio
/ la morte con la poesia / la poesia con la poesia.

 

(Maria Luisa Vezzali)

 

 

 

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Riccardo Socci, Pisa / Firenze

 

 

Riccardo Socci, o dello spettatore casuale. Potrebbe essere questa l’impressione che si trae dalla lettura dei testi presentati al premio. Una trinità di quadri oggetto di osservazione, alcuni reali, altri immaginati. Uno spettatore che getta uno sguardo educato su ciascuno di essi, cerca di inserirsi con più o meno discrezione nella scena. Non come personaggio ma come un deus ex machina privo di poteri, eccetto forse quello di trarre da ciò che vede qualche ammonimento, ma nessun auspicio. Forse nemmeno per sé.

La quête, la ricerca, appare essere in effetti quella di una qualche corrispondenza tra dentro e fuori, tra mondo sensibile ma accidentale e mente individuale. Una corrispondenza che Socci tiene per feconda, cioè suscettibile di materializzarsi in versi, di trovare una veste poetica, ovvero di acquisirne uno statuto d’elezione. C’è una specie di timida convinzione, non del tutto infondata, del fatto che, per volontà o per una fortunata convergenza di fatti, qualsiasi evento, proprio nell’accezione di punto in un insieme di punti casuali, possa vestirsi di poesia.

Il paesaggio, gli alberi ecc.  sono per così dire pre-testi, proprio nel senso che precedono una asserzione. Su di essi radicano pensieri che solo lo statuto poetico fornisce  di una il-logica corrispondenza e forse di una affinità quasi  platonica con quegli elementi del reale.

In effetti se guardo ad esempio il paesaggio e passo poi alla riflessione, lo spostamento ha una sua conseguenza e una sua logica. Ha qualcosa di fisico, è come un cristallino che varia la messa a fuoco. E’ come quando lo sguardo si perde, si fa opaco ed assente agli astanti, che infatti invariabilmente chiedono “a cosa stai pensando?”. Si affaccia qualcosa di personale, non sempre un ricordo, a volte una proiezione di un desiderio, una visione. Che a loro volta ammiccano e lasciano in sospeso qualcosa, un’aria di incompiuto, di “mi piacerebbe”, ma anche un che di narrativo, come se ciascuna di queste poesie fosse l’inizio di una storia, un incipit. Il seguito non ha luogo a procedere, non avrebbe senso perché il pre-testo sembra non autorizzare  l’autore ad una deviazione o ad una rivolta, in altre parole ad uno “sviluppo”. Perché quello che vuole cogliere Socci è un istante di presenza, una immanenza. Certo, potremmo dire, citando Vittorio Sereni, che questi sono “mezzi, espedienti […] con cui intratteniamo il rapporto col reale”, che sono “appigli sul flusso dell’esistenza”, e del resto  – mutatis mutandis parecchio – chi è che sfugge a certi “strumenti umani”? Tuttavia siamo in un altro tempo, un’altra era, qui è come leggere un racconto minimalista (David Leavitt, qualcun altro) posticipato, senza che il minimalismo c’entri gran che, almeno nel senso di quel quid di ferocia quotidiana che dovrebbe portarsi dietro, un senso di tragedia imminente. E forse è perché lo spettatore Socci sceglie di mantenere un approccio non invadente nei confronti della sua materia, anche il linguaggio sembra entrare in punta di piedi nella scena, non eccede, sbircia l’evento da una posizione decentrata, e anche questo “nascondino” sembra rivelare un carattere della poesia di Socci (e forse dell’autore stesso). E tuttavia c’è nelle sue poesie una scia, sebbene non del tutto chiara al lettore, che rimane nell’orecchio e che piace pensare possa essere proprio l’aura di quella confusa tragedia.  In definitiva, quello che nella poesia di Socci elargisce un certo interesse deriva proprio, mi sembra, da questa convergenza di osservazioni eterogenee che essa stimola, questo suo non essere né apodittica né fatale. In altre parole, questo suo essere rappresentativa di una poesia che non contesta i suoi padri, non aspira a rivoluzioni, attende il suo farsi, la sua “emergenza”. In questo probabilmente più in sintonia col tempo di tante altre. (Giacomo Cerrai)

 

 

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Anna Ruotolo, Gli indesiderati

 

 

In questa intensa poesia, Anna Ruotolo riesce a disegnare i contorni di una storia umana che si srotola per lunghi anni, racchiudendo il senso e la storia di una intera generazione. Alcuni indizi temporali ne definiscono i confini (da quattro anni, per ogni secondo insieme), altri indizi (sogno, amore mio, felicità) ci dicono il perseverare di una condizione (lavorativa, esistenziale) difficile (la domanda asprissima) ma resa più calda e sostenuta dalla forza della condivisione e dell’amore, e dalla certezza della speranza. In altri punti del testo il climax consiste nel parossismo del dolore che fa urlare (urlanti, bestie) e sottintende un inferno quotidiano inamovibile e incombente (un unico cerchio di fuoco). Il quadro che Anna Ruotolo dipinge è quello di una scena di vita quotidiana, la mattina che si apre “con pane, pianto e caffè nell’acqua”, in un presente di precarietà e mancanza di prospettive economiche certe, rese tangibili da “Queste maglie stinte e le mani freddissime”: un dolore che da contingente, legato a vicende esterne, sociali, diventa sempre più connesso al corpo e ne determina una condizione di insopportabile sofferenza (mi premeva nel duodeno).

Anche se la poesia in Italia ha da sempre prediletto la ricerca formale e il gioco dello stile più o meno oscuro, esiste tuttavia un filone di scrittura poetica che predilige la chiarezza e  su di essa sa innestare rimandi e citazioni dalla tradizione letteraria, creando una narratività né consolante né pacificata, che però sa catturare il lettore in una morsa empatica di condivisione.

Senza bisogno di oscurità, ma lontana al tempo stesso da ogni semplificazione, Ruotolo inserisce nella sua scrittura rimandi a temi cari alla tradizione religiosa popolare, come quelli della preghiera e dell’invettiva biblica, presenti sia in un poeta sommo dai registri alti come Dante, sia nei prosatori che hanno avuto a cuore la questione meridionale, come Carlo Levi. I Vangeli sono e rappresentano la cultura dei poveri, dei “diseredati”, come recita il titolo della poesia stessa, e ad essi Anna ci riporta inserendo nel testo termini come “una preghiera diversa”, “quella preghiera per i diseredati” , le “parole del salmo”, “ i poveri stolti del cuore” e intere citazioni come “la felicità non è né di questa terra né dell’altra”, e soprattutto il termine, che dà titolo al testo, quell’”indesiderati” , “diseredati” che si accorda con dolore al concetto di povertà e prevaricazione, ieri dei lavorati della terra, specie nel meridione, oggi dei migranti, che fuggono da condizioni di vita proibitive e mortifere per aspirare non a una vita eterna, ma a quella ricerca di felicità che appartiene a ciascuno di noi e per questo ce li rende vicini e fratelli.

(Loredana Magazzeni)

 

 

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Francesco Salvini,  La città vecchia

 

 

Le poesie di Francesco Salvini scelgono di collocarsi metricamente nel solco della tradizione, optando per l’endecasillabo e facendo ampio uso di enjambement. Ma la misura italiana per eccellenza è qui messa in tensione dalla frequente presenza di versi sdruccioli e soprattutto dalle forti cesure, marcate dalla punteggiatura oppure dal dividersi dell’endecasillabo in due emistichi il secondo dei quali sembra scivolare verso il basso a formare un nuovo verso. È un modo per imitare, anche graficamente, le architetture urbane protagoniste delle opere proposte. Come i muri degli edifici e l’asfalto delle strade, anche questa scrittura è solcata da crepe e fenditure, tende a screpolarsi.

Il fil rouge che unisce i tre componimenti è dato dal rispecchiamento tra gli esseri umani e il contesto urbano: un senso di moderna vanitas emerge dal parallelismo tra l’usura e il decadimento che accomunano il corpo e lo spirito delle persone da una parte e i marciapiedi, le strade e gli edifici cittadini dall’altra.

Il titolo complessivo della mini silloge è “Città vecchia”, un’espressione ambigua che potrebbe far pensare alla parte antica della città, lasciando presagire una densità di storia, arte e bellezza. Tutto questo rimane però semplicemente suggerito, mentre l’attenzione si sposta sulla fatiscenza di palazzi definiti “incancreniti”, sulla freddezza del cemento “inesprimibile”, sulle tracce logore lasciate sul lungomare dalle vite in transito. L’ambiente qui ci rimanda al cinema di Pasolini o alle pellicole del neorealismo, a scene che sbavano in un bianco e nero schiarito dal tempo.

Un freddo chiarore invade i versi sin da subito: il sole è evocato da un aggettivo riferito in maniera inusuale ai ragazzi invece che, come sarebbe lecito aspettarsi, alle piazze menzionate immediatamente dopo. È sabato, come precisa l’incipit della prima poesia, ma come nel leopardiano Sabato del villaggio, la scena di festa iniziale è interrotta da un’amara considerazione sulla natura effimera delle passioni e della giovinezza. Il riferimento al sole si raggela in un luogo comune, niente di nuovo sotto il sole, che segna una brusca cesura spegnendo la luminosità dei primi versi: il dinamismo dei ragazzi in preda agli ormoni lascia il posto all’immobilità di chi si limita a guardare la loro esuberanza.

La vanità del tutto è esplicitata nella seconda poesia, con la scelta dell’aggettivo “caduche” in riferimento alle cose del quartiere. Al centro del componimento è la consunzione della città, con le buche delle strade che invecchiano come la gente, con le crepe nell’asfalto, il catrame che si corrompe attendendo di essere scorticato dalle ruote. La sgradevolezza della scena culmina nell’oppressione fisica dovuta all’afa estiva, nel sudore dell’asfalto che inevitabilmente evoca traspirazioni umane. Protagonista dei versi è l’umanità che invecchia, che decade, sorpresa nel momento in cui scappa in casa sbaraccando il tavolo delle carte, un passatempo da anziani che si contrappone ai giochi e ai baci dei ragazzi della poesia precedente.

Il sole torna nell’ultimo componimento nella fase del tramonto, mentre cede alla stanchezza proprio come le persone, che hanno le vertebre scricchiolanti per la fatica, e come le architetture che sembrano chiudere gli occhi con l’abbassarsi delle serrande. È nell’acquietarsi delle attività a sera che si percepisce più fortemente come tutto si consumi: si aprono solchi nell’asfalto, i copertoni si corrodono, i gomiti si usurano strofinati per distrazione contro il cemento. La caducità dell’esistenza, il lento decadere dalla culla alla tomba accomuna la città e gli esseri umani che la abitano. Lo scenario urbano appena accennato nella prima poesia si definisce meglio qui nel suo stato di degrado: allo schiamazzo dei ragazzi nel giorno di festa si sostituiscono il piscio di ubriachi e i segni dei becchi e il guano dei piccioni.

Tutti e tre i componimenti di Francesco Salvini prendono forza da parole pregnanti, di grande concretezza, da un lessico realistico ricco di suoni aspri che vanno a incrinare la musicalità avvolgente dell’endecasillabo. Anche il linguaggio e la poesia stessa non si sottraggono al decadimento, irruvidendosi in una raucedine che scortica i bronchi, lasciando presagire la vanità, la caducità delle stesse parole che qui vengono dette. (Francesca Del Moro)

 

 

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Anna Bastelli, I lampion

 

 

Il dialetto è un patrimonio culturale: ormai è risaputo. Su di esso sono infiniti gli studi, i saggi.

Anna Bastelli è una nota rappresentante della poesia dialettale bolognese, un genere che ha un grosso seguito. Le sue letture pubbliche riscuotono successo: risate, commozione, applausi…, nonostante la sua ritrosia.

Ha iniziato a scrivere in dialetto quindici anni fa. E’ la sua lingua madre, imparata e parlata in casa. La percepiva quasi come una “mancanza” nei confronti dell’italiano, fino a quando si è resa conto che a Bologna c’è tutto un mondo che ruota intorno alla valorizzazione e alla scrittura del  dialetto. Per lei è stato piacevole entrare a farne parte, ed oggi ne è orgogliosa. “Perché le parole ci sono, basta solo tirarle fuori!”.

In realtà, un elemento centrale è quello di mantenere viva la memoria del passato, in particolare per i più giovani. Senza di essa non si può comprendere il presente, né tanto meno progettare il futuro.

Anna ci conduce quasi per mano nel suo mondo, soprattutto in quello dell’infanzia. Ci parla di suo padre che arava e mieteva. Tutti noi proveniamo dalla cultura contadina, legata alla terra e agli animali. Da questa società derivano i nostri modi di dire quotidiani, più di quanto si immagini. Si ricollegano spesso alla mitologia greca e latina, alla storia, alla letteratura scritta o orale, colta o popolare. Anna traduce anche grandi poeti in dialetto, perché, derivando autonomamente dal latino, non ha nulla di meno dell’italiano. L’unica carenza è forse di non esprimere sempre i sentimenti, ma una volta, si sa, i sentimenti non si esternavano!

Una caratteristica di Anna è certo l’ironia, che si evidenzia particolarmente nelle chiuse dei suoi testi. Si può anche parlare di bilinguismo dialetto-italiano, perché naturalmente lei fornisce la traduzione italiana per chi non conosca le espressioni dialettali. Nella forma sono metafore, rime, ripetizioni e una forte capacità di sintesi.

La poesia segnalata è un sonetto: “I lampioni”. In esso la luce è “tenue e soffusa”, permette di ammirare le stelle. Nella sua brevità riesce a comunicare il senso della fugacità e bellezza della vita.

Mi è piaciuto leggere altre poesie di Anna.

Il buio è nella poesia “La tua guerra”. Però una guerra vissuta da una bambina di otto anni come un gioco serio. Nella poesia “La bicicletta”, una bambina che ha “imparato da sola a pedalare” su quella grossa del padre,  si è procurate molte “sbucciature alle ginocchia”. Questo genere di esperienze ha preparato ad una vita autonoma e coraggiosa. “Sul telaio aveva striature/ che a me sembravano d’oro/ ma erano solo tracce di saldatura”: l’importante è immaginare la luce dell’oro, vedere la realtà attraverso il filtro dell’immaginazione, della fantasia, che permettono la scrittura. La luce infine predomina sul buio.

La lingua, il dialetto sono legati alla nostra vita; quindi, se li perdiamo, perdiamo la nostra vita, noi stessi. Anna dà il suo contributo perché tanta ricchezza non vada persa, perché sia salvata.

(Serenella Gatti Linares)

 

 

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L’acrobata e il suo filo, dolore e realtà nella poesia di Giorgio Rafaelli

 

 

I destini paralleli della vita e della letteratura necessitano sempre della presenza di un filtro che consenta al dramma della nostra esistenza, e di conseguenza alla nostra desolata ricerca di espressione e reificazione, di condensarsi in una forma. Una forma che si faccia “senso”, realtà e stile, esperienza e intonazione, cercando i segni della silenziosa profondità di tutto quello che ci circonda in un quel corpo perduto, speculare alla propria immagine proiettata, che ciascuno si dà per accerchiare il proprio pensiero e renderlo inoffensivo. La poesia di Giorgio Rafaelli, così dolorosamente disseminata di reale, con chiarezza, senza ambiguità e sperimentalismi, esplora la natura composita del diaframma che lo separa dal mondo e, nella trilogia di testi qui presentati, L’acrobata, Lapsus e A destinazione, si materializza in una partitura dalla granulosità semantica dolente che diviene, nel rapportarsi alla sua pratica discorsiva, forma obbligata di uno sguardo che vuole trovare un suo punto di fuga e che il poeta, sin dalle prime battute, inquadra nei suoi versi:  “Mi appartiene ancora quel riflesso/dalla fòrmica bianca e verde/ della cucina del settanta;/già moderno lo spazio levigato/ che fissavo scapigliato/oltre la tazza mattutina.” (da L’acrobata). Oltre la palude dello spazio corporeo del quotidiano, che lo sguardo coglie in un piano sequenza rivelatore, Rafaelli non trova che un vuoto intorno, una desolazione sistemica e assoluta che non ammette tregua, e in cui la poesia si dibatte in uno tra i tanti risvegli in una cucina anni Settanta,  in un nulla nel quale “il tempo toglie/ogni senso al voltarsi”, nel timore che  il suo luogo di messa a dimora sia ancora quello più vicino al dolore.

In questo universo cristallizzato in forme ostili, su di una parete in cui “si succedono i miei nuovi passi/come quelli di un acrobata/che deve credere al suo filo.”(ibid.), lo sguardo dell’acrobata indugia costantemente, come a voler spostare il suo oggetto e a riconsiderarne più volte la sua insufficienza organica, quasi incapace di credere ad una sola possibilità di equilibrio: “Ancora qualche folata/ricorda un odore di quelli/che vestivano le cose/di cui cercavo i nomi”(ibid.). Dunque, attraverso la finestra sensoriale di un proustiano odore delle cose, il poeta riceve una rivelazione sull’interiorità, su un residuo inesplorato, e talvolta inesplorabile, del nome primigenio degli elementi del reale. Ovviamente, è possibile che questo desolato apparato nominale resti irriconoscibile, ma proprio a partire da questo margine di inconoscibilità, il poeta afferra, nella macchina della forma, quella parte di sé perduta irrimediabilmente, simultaneamente interna ed esterna, familiare ed estranea. Si disegna uno sfondo, vi si colloca, ci si perde. Come polarizzazione dell’abisso nullificante che costruisce e osserva, l’autore trova dialetticamente la propria dimensione umana, che poi è il vero e proprio oggetto della sua ricerca. Questo trafelato affanno visionario non inganna però, perché in esso c’è tutta l’ansia della poesia, c’è il suo peso, il suo desiderio di comunicare un altro ma disarticolato suo possesso, quello simbolico: “seguo l’enigma di una scia che da un velo minimo vaporizza/dall’asfalto che mi precede di pochi istanti dando forma/a chi avanti traccia verso altrove – e inseguo” (da A destinazione). La poesia, di conseguenza, ha origine proprio da questo “velo minimo” che “vaporizza”, da questo buco nel simbolico, da questo difetto nell’immagine che mostra i suoi bordi, i suoi vuoti, di qua e di là dallo spessore della traccia semantica: “come la superficie che si infrange e ricompone inerte/- le medesime gocce di prima un attimo dopo” (ibid.)

L’immaginario, così, dopo un infinito scambio delle parti si costituisce luogo svuotato, deposto a terra e scorporato dal suo involucro. E’ proprio per questo che l’acrobata Rafaelli fa del proprio corpo una realtà virtuale, un ente non separato ma delimitato, quasi inesistente: la poesia lascia infatti spazio all’incontro “esterno” dello sguardo, come immagine posta di fronte a lui che, inoltre, dà coerenza visiva al corpo e ai pensieri di chi la guarda, di chi la squadra, di chi le fornisce, cioè, una geometria esistenziale che si faccia orizzonte, non necessariamente regolare ed esatto, per lo scontro con il quotidiano: “qualcosa di diverso tremava nella tua luce spingendomi oltre/e non ricordo qual è la più esatta delle tue parole e ultima/troppo diluita tra le altre in questo transito”(ibid). Dunque il transito desolato delle cose non si risolve nel mero riferimento all’oggetto che permette di ritagliare immagini nel campo percettivo del poeta, ma accoglie una verità che risiede nel modo in cui essa si pone nei confronti dell’altro, nei suoi rifiuti, nei suoi accecamenti, nella sua inconoscibilità, soprattutto, come dice il poeta, quando “mi viene incontro qualcosa di imminente ma passa presto” (ibid.). (Antonella Pierangeli)