Premio Bologna in Lettere 2019 – Francesca Proia – Nota critica di Giusi Montali

 

Le note critiche agli autori che hanno ricevuto il Premio speciale del Presidente delle giurie alla V edizione del Premio Bologna in Lettere: Francesca Proia

 

 

Leggendo le raccolte Indigena alla terra e Ewewertyhterwetr e i testi inediti di Francesca Proia, si definiscono chiaramente le caratteristiche della sua poesia: uno “stare nelle piccole cose”, una scrittura che si intesse nel respiro del corpo e della mente, e che sorge nello svolgere quotidiano delle azioni più banali e ripetitive, delineando un’efficace rappresentazione della dimensione famigliare (il rapporto con i figli e con il compagno) e di quella intima (la pratica dello yoga, la personale lotta con la depressione, l’elaborazione del lutto paterno). La datazione accurata dei testi in giorni, mesi e anni o, come nel caso di Indigena alla terra, l’accorpamento dei testi sotto l’insegna di uno stesso mese rivela l’attitudine per la pratica quotidiana della scrittura di Proia. Tuttavia, la dimensione del reale quotidiano non esaurisce la sua poetica, infatti a essa si aggiunge anche la componente onirica. La narrazione dei sogni avviene attraverso una prosa riflessiva dall’andamento disteso e articolato che a volte cede a immagini surrealiste, altre si presenta come una stratificazione di pensieri.
Ma sia la narrazione del reale che quella onirica, sia la prosa che la poesia, permettono al lettore di venire a contatto con il mondo interiore della voce poetica (“Tutto è nella mia testa: | il sole e la pioggia, le foglie e i frutti, | i mesi, le maree. | Il canto degli uccelli”). In effetti, l’intero procedimento della scrittura è un’occasione per indagare il funzionamento della mente e prenderne consapevolezza (“Un giorno ho visto la mente, | com’è fatta dentro: | il paesaggio cambiava sempre, poi si ripeteva. | E a un tratto ho visto un cervo”), mentre l’irruzione dell’elemento inaspettato (nei versi citati il cervo) destabilizza e al contempo permette un allargamento del senso dell’io, un suo trascendersi che rivela come dietro al velo delle cose vi sia una dimensione ulteriore.

Lo svelamento avviene attraverso l’osservazione del movimento che è alla base stessa della vita e che per tutta l’esistenza accompagna gli esseri viventi: il respiro (“La mia ispirazione è un diaframma che si dilata e si restringe”). L’osservazione della cadenza del respiro palesa tutto ciò che nelle nostre vite si accumula, eccede, non ha collocazione, ma necessita di esprimersi (“Allora prende corpo un canto | che somiglia alla polvere | quando si addensa negli angoli”). Tale pratica dell’“ascolto estremo” consente all’io di perdere i suoi contorni, di non ergersi a giudice dell’esistenza ma di comprendere in sé l’universo, ogni forma di vita. È così che si assume il punto di vista di un albero, e ancor più si diviene albero, smettendo le vesti dell’umano (“Guardo l’abete fuori dalla finestra, | è ancora buio, siamo solo noi due. | I suoi aghi diventano i miei capelli. Tranquilla metamorfosi prealba”) e ci si fa attraversare dagli elementi (“Divento un’alba umana. Il sole passa attraverso gli spazi tra le singole cellule del mio corpo”). Del resto, il lettore assiste a numerosi esercizi di metamorfosi dell’io che sembra darsi nuove possibilità e pervenire a un’intelligenza comprensiva  (“Chiudo gli occhi, divento una mela”; “realizzo che posso essere un’altra persona in un istante, | vedere il mondo con occhi nuovi, e ricominciare”; “Quando non riesco a dormire immagino di essere un fiore, | e nel semplice stare trovo il mio riposo”; “Essere donna, poi uomo e poi, forse, donna ancora, | dentro la stessa vita”).

La pratica d’ascolto condotta a partire dalla “logica segreta del corpo” perviene alla “sorgente omogenea dell’esitazione universale”, a “una sorta di comunione, di allargamento dell’io”. E tale espansione della coscienza ha due risvolti: un acutizzarsi del dolore e del piacere che rivela “tutta quanta la fragilità | nello stare al mondo” e una perspicuità della mente che valica le dimensioni della razionalità per accogliere un senso più ampio dell’intelligenza che permette di captare ciò che eccede: “Io sono l’intimità tra due persone, | i loro silenzi, l’esitare, l’elettricità | che crepita, che quasi si spegne, che scorre leggera. | Io sono quello che loro colgono solo in modo irregolare, | sensibile, animale: la luce, il sentimento, i piccoli fuochi, | i solletichi, le crepe, e tutto il dolce”.
Se l’attenzione rivolta al respiro può essere giustificata dalla consuetudine di Proia alla pratica dello yoga,  vi sono nei suoi scritti almeno altre due tematiche riconducibili alla filosofia dello yoga e che costituiscono una sottotraccia pervadente, quantunque mai esibita: il concetto di tapas (ardore) e quello di vac (parola, voce, suono). Il corpo, sensibilizzato dalla pratica dell’ascolto, diviene un involucro che mostra le sue crepe (“Adesso il mio corpo è un vaso rotto”), le quali permettono alla parola di manifestarsi come un pallido riflesso della dimensione illimitata che la precede, la mente. La Chāndogya Upanishad ci ricorda infatti che “la mente invero è più che la parola” e, in effetti, nella scrittura di Proia osserviamo a più riprese che ciò che è davvero rilevante si attua nella mente: come ben attestano  i sogni che svelano ciò che è al di sotto, o al di sopra, del livello in cui la parola ha residenza (“ogni parola affiora lentamente | dal bianco profondo: nascono in silenzio”). La vera esperienza di sé e del mondo è al di là della parola e prima di essa: la parola è il modo in cui di tale esperienza rendiamo testimonianza ad altri (“C’è un tipo particolare di intuizione che sorge soltanto da un silenzio profondo. Sembra provenire da una distanza siderale, parla un linguaggio alieno, e porta strane, mai pensate connessioni tra le cose”). La parola, sebbene mancante, incompleta, sul punto di sfaldarsi, trova un parziale riscatto nel dire poetico che rinunciando all’utilitarismo del linguaggio, può, anche se solo per brevi istanti, proiettare all’esterno ciò che avviene nella mente. Al concetto induista di vac, parola, si affianca quello di tapas, ovvero lo sforzo che l’individuo compie per giungere a uno stadio di purezza corporea e mentale, l’autodisciplina che permette di raffrenare gli impulsi fisici e mentali, giungendo a uno stadio superiore di vita (“alla visione chiara ci dobbiamo arrivare | solo se ce lo meritiamo”), ma che è anche l’ardore, ovvero ciò che spinge l’uomo a oltrepassare i confini dell’umano. La scrittura di Proia è infatti una pratica di ascesi, “una forma di eremitaggio” che  permette, così come la meditazione, di intravedere la pienezza e la gioia dell’integrità, trascendendo le divisioni e l’assurdità dell’esistenza (“è un occhio capace di infilarsi alla radice della frammentazione che siamo, | e di vedere come saremmo se fossimo tutti integri”). Così, a volte, può accadere che nel mezzo di una difficile e spesso non benevola quotidianità, si gusti il piacere dell’ascesi e il calore dello sforzo, sperimentando “il potere magnetico del sole, | che è come un vento, | che ti desidera”.
Proia ha sicuramente il merito di integrare la filosofia induista alla scrittura poetica senza che ciò risulti concettoso, bensì restando nell’immediatezza del reale. Il risultato è una scrittura che si  nutre sia della consuetudine alle discipline corporee (come la danza e lo yoga), sia dell’attenzione rivolta al ritmo, all’ascolto e ai principi di composizione musicale (Scelsi, Schoenberg, Reich, Varèse e Cage), apportando una certa novità nel panorama poetico italiano. Ciò si deve anche a una formazione che accanto ad autori occidentali annovera poeti orientali, valicando così i confini di certo eurocentrismo culturale. Il risultato è una poesia meritevole di analisi particolareggiate e che,  se ben condotta e nutrita dall’autrice, avrà ampi margini di crescita. (Giusi Montali)