Premio Bologna in Lettere 2020 – Nota critica di Giusi Montali a Non essere di Alberto Cellotto

Alberto CellottoNon essere (Vydia)

Sezione A – Opere edite – Finalista

 

Leggendo Non essere di Alberto Cellotto mi è risuonato in testa un passo dell’Uomo senza qualità di Musil, nel quale è descritto un momento in cui l’io riconosce una “scollatura” nell’essere che lo conduce d’un tratto altrove, al di fuori del movimento dell’esistenza, al quale non può più aderire. Tale rivelazione avviene osservando il mondo esterno che continua a scorrere mentre in una vertigine l’io si oppone al movimento e rifiuta di appartenere al tutto scorre dell’esistenza, e questa brusca frenata e il conseguente rifiuto del reale, provoca nell’interiorità una paralisi. Il passo è il seguente:

 

una vernice s’era scrostata, una suggestione si era sciolta, una corrente di abitudine, speranza, tensione si era interrotta, un equilibrio segreto e fluido fra il sentimento e il mondo era stato per un istante turbato. Tutto ciò che si sente e si fa accade comunque sia «in direzione della vita» e il più piccolo movimento in altra direzione è difficile o inquietante. […] basta un piccolissimo mutamento, un lieve timore, o anche soltanto stupore, di quel lasciarsi-cadere-nel futuro e non si sta più ritti               

 
Detto ciò, la raccolta si apre con un momento del tutto analogo: l’esistenza è riconosciuta negli animali, nei paesaggi, nelle cose, nei luoghi ma non nello specchio, superficie che dovrebbe riflettere l’immagine dell’io, e invece rimanda il nulla. L’io infatti, essendosi sottratto al flusso dell’esistere, non è più.  Ma tale perdita è subita o ricercata? Non saprei dare una risposta univoca perché l’io sembra sì desiderare l’annientamento ma poi subito dopo si affanna a ribadire la sua presenza, la urla; oppure cerca disperatamente ciò che gli impedisce di esistere; altre volte vorrebbe invece recidere di netto ciò che lo lega ancora alla vita. 
Allo specchio segue, ed è il testo subito successivo a quello di apertura, un’ulteriore mancata attestazione d’esistenza: non pervenuta la cicatrice dell’antivaiolosa che, oltre a comprovare un preciso momento storico, ricorda all’individuo che la possiede la propria appartenenza a una società e quindi a una dimensione più ampia. Del resto l’io poetico rientra tra le schiere della generazione per la quale nessuna nicchia è prevista e di conseguenza nessun conforto (“Riassumendo se non mi sbaglio: scrivono che lo sbaraglio | della nostra generazione sia l’inappartenenza. | […] Non ci sono nicchie per l’uomo.”). Quindi l’io sembra non esistere anche per questione generazionale: ma la sua è una crisi particolare o universale? Riguarda tutti gli appartenenti alla sua generazione o è piuttosto insita nell’esistenza stessa dell’uomo?              
E dal momento che si è rigettati dall’essere, perché non allontanarsi dall’esistenza e abbracciare il non essere? L’io ci prova più e più volte. Desidera l’uscita ultima dall’essere, tra desiderio e timore, slancio in avanti (“E adesso posso scendere | come un fosso verso il nulla che sono”)  e un reiterato voltare lo sguardo al passato, in un movimento altalenante e instabile. Accade poi di essere  tentati dall’esistenza, basta pregustarne un istante che subito la si anela nella sua pienezza, mentre ciò che si riesce a ottenere è un’imitazione difettosa della vita. Così l’io si dibatte tra l’anelito di annichilirsi e l’incapacità di riuscirvi ed è nuovamente ri-gettato nel circolo dell’esistenza: “Dovrei bruciare io, con tutto quello che per niente tengo | tengo e tengo per pensarmi più lento a perire”.              
Tale indecisione si trasmette per contagio ai luoghi e al tempo a loro volta impediti, interrotti, sospesi in procinto di trapassare in altro senza riuscirvi, e così l’io si ritrova bloccato in non-luoghi (“Fermi così all’ora di pranzo all’area di servizio”), in non-tempi (un crepuscolo sospeso che sembra non voler cedere alla notte), in stagioni contaminate da altre stagioni (“Io poggio i piedi in due stagioni”; “ora che l’autunno ha girato | in sole e splende più d’un estate”). L’indecisione dell’io sembra così espandersi a tutto, o forse è l’indecisione della realtà stessa a trasmettersi all’io (“vivere è un clima spostato avanti presente | e pronto a collassare”) e che si esprime attraverso un dettato poetico intessuto di “non” davvero onnipervasivi ai quali si aggiungono, sebbene in misura decisamente inferiore, altre negazioni.

Ma credo che sia soprattutto la trama sonora dei testi ricchi di rime interne (“il bosco è lavato, dilavato, stirato ai lati”), allitterazioni (“palestra ancestrale, tra strade | come strisce”) e ritorni fonici a volte percussivi, a creare nel lettore questa continua immagine di qualcosa che si inceppa. Anche la sintassi nel suo procedere per germinazione di periodi ipotetici, spesso preceduti o seguiti dall’attestazione dell’io di non sapere, concorre a questo effetto. Così come il procedere del discorso attraverso sussulti, accostamenti e trapassi fulminei che rispondono a una logica del pensiero dell’immaginazione e dell’onirismo. Non si ha però una surrealtà piuttosto una realtà sospesa che accoglie in sé frammenti di ricordi e vicende dell’io e delle persone che lo attorniano o delle cose che lo circondano (e Cellotto è molto abile nel descrivere tale sospensione che avviene non realisticamente ma per continui accostamenti di frammenti, spesso giustapposti attraverso salti logici).

Trovo però che la sua abilità sia ancora più sorprendente quando si trova a descrivere i sogni perché lo fa con una tale forza visiva da costringere il lettore a esserne perseguitato (ma di nuovo non è da meno la dimensione fonetica). Come avviene in questo testo che cito per intero:      .

Perché ci fosse un trapano nella scena è un problema            
del realismo. Era un trapano senza filo. (Sono i sogni fatti        
nella nostra materia.) E nel dialogo tra padre e figlio 
non c’era più dialogo, il padre o il figlio impugna        
il trapano e punta dritto in mezzo alla schiena, trapassa           
il maglione del figlio o del padre e appare un foro rosso         
sulla pelle. Si finisce per dire che ci vorrà quasi un anno         
per guarire, ma guarirà, guarirà anche il midollo.     

nel quale la parola “trapano”, ripetuta per tre volte in pochi versi, è richiamata nel verbo “trapassa”. Infine trovo che il polittoto finale, altro caso di persecuzione fonetica, sia potentissimo e ci trova indecisi: la guarigione è auspicabile, oppure un’ulteriore condanna? Concettualmente il testo risale alla radice dell’essere e del non essere, quella diffusione della vita, e conseguente morte più o meno futura ma sempre certa, che avviene di padre in figlio e che si verifica attraverso “infusione” di midollo spinale. Il padre è senza dubbio all’origine dell’esistenza e della conseguente futura morte del figlio, ma è a sua volta figlio di padre, e sappiamo che ogni figlio è stato in rivolta con il padre proprio per tale trasmissione di esistenza. Ma così come il figlio minaccia il padre di parricidio, la colpa del padre è sempre quella di figlicidio, avendolo condannato all’esistenza e alla morte. Così si subisce l’esistenza come una condanna comminataci a nostra insaputa e senza che la colpa ci appartenga.

Infine l’io, che si è dibattuto per tutta la raccolta tra essere e non essere, deve ammettere di non poter seguire quest’ultima via perché essa richiede una pratica di continua ascesi che gli è preclusa (troppo coraggio e sforzo occorrono) e così deve ammettere che “Ci vuole troppo a non essere e tante stelle hanno bisogno | di annerire”. E a tale ammissione segue l’inevitabile ricaduta nel ciclo dell’esistenza difettiva: “Un bianco stava con le chiavi dei chiari pazzi. Pazzo | viene il chiaro e l’ombra nella porta aperta | a mancare di poco così al luogo scemo che c’è”. Lo stesso bianco che nel testo iniziale preannuncia la via che avrebbe potuto essere seguita per la salvezza: “L’igiene | del mondo poteva essere un colore infranto sullo spazio | sempre più sottile sempre più verosimile | fino a farci sbucare nel bianco”. (Giusi Montali)