Premio Bologna in Lettere 2020 – Nota critica di Maria Luisa Vezzali a Monadi di Consuelo Luzietti

Premio Bologna in Lettere 2020

Le note critiche agli autori segnalati della Sezione C (Poesie singole inedite)

Consuelo Luzietti, Monadi

 

 

 

C’è un’aria blues – non per caso il nume tutelare qui è Kerouac – nel primo testo proposto da Consuelo Luzietti, autrice non ancora trentenne fondamentalmente inedita (alcune sue poesie si possono ritrovare su siti specializzati), di recente laureata in Estetica con una tesi sul nostro prosatore più grande e mescidante, Carlo Emilio Gadda, sia per lo strascicato inciso «questa è la vita honey», sia per altri elementi ben più caratterizzanti: gli enjambement che mettono il verso in continua tensione con il beat successivo, la ripresa ad antifona («e tu non puoi fare altro / che dire di sì con la testa, / sì con la testa»), la chiusura che richiama in modo chiastico l’inizio («in una sala d’aspetto di oncologia / ho letto Kerouac» vs «mentre leggevo Kerouac / nel reparto d’oncologia»), il tono malinconico ma non sentimentale, giocato su una leggera trama d’ironia tragica (come la figura d’opposizione tra la lunghezza dei corridoi d’ospedale, percepita come infinita, e la loro destinazione «verso la fine»).

Più in rapporto (un rapporto, come vedremo, ambiguo e divaricato) con la tradizione poetica italiana la poesia successiva, dove «lasciatemi qui con loro / abbandonata come un sasso» invita chi legge a creare una connessione con il celebre passo ungarettiano «lasciatemi così / come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata», in modo che si attivi come spinta sottotestuale la medesima aspirazione sia all’unanimismo (la «necessità dell’attesa / dell’accogliere l’universo»), sia alla creaturalità («povere creature siamo») del Porto sepolto. Subito dopo, invece, il confronto amoroso-traumatico tra un Io e un Tu, che si vorrebbero dialoganti ma programmaticamente non possono esserlo a causa della loro natura ferita («la pioggia ha scavato solchi / sul tuo viso») e autistica («io non so / parlare / e tu ascoltare»), ricorda qualcosa di totalmente dissonante rispetto alla citazione precedente: ovvero il testa-a-testa agonistico del «tu non sai cosa cerchi, io / non so cercarti» della Libellula rosselliana. Tale scelta risulta, più che un accostamento, un meccanismo di frizione e funziona pertanto come una sorta di replica del principio di realtà alle illusioni del soggetto, considerando il fatto che anche in questo secondo testo agisce l’ironia tragica dell’antitesi, in questo caso tra la proclamazione di un desiderio di fusione così profonda da arrivare a livello organico («potessi darti il mio stomaco», correttamente tra virgolette, come tutto ciò che rimane a uno stadio di pura allocuzione) e il destino che condanna a essere «monadi senza commistione».

L’orizzonte di morte e il muro d’incomunicabilità tematizzati dai primi due testi paiono trovare un antidoto nel terzo componimento, ultima fase di una sequenza che si auspicherebbe hegeliana, e non è. Paiono trovare un antidoto, perché tra l’Io e il Tu si prospetta un incontro e una capacità di riconoscimento («la tua vita la riconoscerei tra milioni»). Non lo è, non solo perché il primo verso ribadisce per due volte che ciò che si colloca nel futuro avverrà «forse». Ma soprattutto perché questa ipotesi di ricongiungimento – di «mani avvinghiate» – non è che un rivivere qualcosa di accaduto in un irrimediabile passato («una volta») che stride con la serie di verbi al futuro, finisce solo per ribadire l’isolamento individuale e può ambientarsi esclusivamente nella prospettiva immaginaria e artificiosa di un film. Più che su una fine consolatoria in stile Sorgente dell’amore di Radu Mihăileanu, dunque, il lavoro presentato da Consuelo Luzietti si chiude su una scena di solitudine cosmico-esistenziale che ricorda la fiamma che rabbrividisce nell’oscurità dei titoli di coda del malickiano Tree of life: tutto è «di nuovo lì», condensato in un «nucleo recondito» che si trova lontano (nell’«universo») e dentro («nello stomaco che trema»). Che sia il grumo da cui origina il Big Bang o quello in cui collassa il Big Crunch lo si lascia scegliere a chi legge: resta il fatto che quel tremore è l’unico residuo che Luzietti ci lascia a ricordarci della vita. (Maria Luisa Vezzali)