Michela Gorini – la tua formula invertita femmina – Nota critica di Sonia Caporossi

Premio Bologna in Lettere 2021

Michela Gorinila tua formula invertita femmina – Nota critica di Sonia Caporossi

 

La meditazione sul corpo e sulla natura del femmineo è in Michela Gorini habitus poetico che in questa raccolta si compie intorno alla riflessione sul dolore della separazione in una caustificazione incolore del medesimo, rappresa nella dimensione cristallizzata (eppur viva e pulsante nel sub-conscio) dell’assenza. Infatti, se “tutto brucia senza ferita apparente / senza ustione senza taglio senza morso”, ovvero se “tutto brucia senza fuoco” è la dimensione pulsionale, il lascito lacaniano del desiderio ciò che consente l’emergere della significazione della sofferenza psichica, pur nell’epoké della parola, che peraltro non smette un istante di mostrare l’esito scabro dello strappo tra senso e significato. Allora, il male, per questa lacerazione profonda, assume la forma di un’afasia, definita nei termini di un mutismo dell’anima: “il mio dolore la parola muta /che geme ama e abita il pianto”. Si tratta di un’afasia che tuttavia trascende il topos dell’ineffabilità per farsi “miracolo del senso”, laddove la polisemia si fa manifesta nel dualismo singolare/plurale del lemma: infatti, se a sua volta “la pace dei sensi / forse deve venire”, purtuttavia ciò che rappresenta e consiste nella “pace del nonsenso” ci consente di ritenere ragionevolmente che “forse il senso / sedimenta”, ovvero che forse lo strato profondo dell’istinto (di sopra/vivenza) continua permanentemente a dirigere l’orientamento pulsionale del soggetto-afasicamente-parlante.

Ciò che si evince da un tale processo di sedimentazione inconscia è, in qualche modo, la distinzione tra istinto e intuizione: il primo viene gettato-nell’-esistenza dell’essere così com’è, senza mediazione intellettuale né teoretica di sorta; la seconda, fattasi presa di coscienza e capacità di verbalizzare il dolore, funge invece da tramite tra il sentire esteticamente inteso e la parola poetica stessa come strumento, che si dà all’autopoiesi nel momento esatto in cui un qualsivoglia senso definitorio viene a togliersi. Quindi, si tratta di un “[togliere] / un rêve, enlever, ajouter / fino a trasparire”, giacché “tutto si gioca nell’assenza”, ma è un’assenza piena del vuoto stesso che la determina, e questo vuoto si dà all’intuizione come a un riempimento, non foss’altro che di sé stesso.

La parola poetica, pertanto, assume la forza e il valore del dire la bellezza nel/del dolore: e lo dice nominalmente, sostantivizzando il male e dandogli un termine, fornendogli un sema, caricandone la determinazione di senso. “Quanto nome alla bellezza / in un nome solo”, scrive Gorini quasi a dare la misura di un epifanico abbaglio della mente, finché, nei testi dedicati alla figura femminile per eccellenza, la Madre, il corpo non si ritaglia persino la funzione cristologica di un atto sacrificale personalmente assunto come movente del contatto, della comunicazione, del passaggio di consegne: “tocca a me / [il corpo di Cristo] / lo devo toccare [con cura] / prendere [cosa sacra] / accettare dentro”. Le parole-tema, incastonate tra parentesi quadre, rendono l’esattezza sintattica dello strappo di cui si diceva, perpetrando un atto comunicativo tanto più purificatorio quanto più impossibile da darsi e da dirsi, in una ri-flessione che è anche intorno all’uso poetico, continuamente spostato in altro, di un linguaggio in in-versione formulare.