Gabriella Montanari, Plagiarsi addosso – Nota critica di Giuseppe Martella

Premio  Bologna in Lettere 2021

Gabriella Montanari, Plagiarsi addosso – Nota critica di Giuseppe Martella

 

Avendo iniziato piuttosto tardi a pubblicare, Gabriella Montanari ha poi bruciato le tappe e, nel corso degli ultimi dieci anni, non ha mai mancato di sorprenderci a ogni sua nuova uscita: parto di una inventiva fervida e di un dettato straripante, polifonico, circense. Di una continua ricerca, che si esercita non tanto o non solo nella dizione poetica o nella occasionale commistione di prosa e versi, quanto piuttosto nel rapporto fra testo e immagini, e segnatamente fra scrittura e fotografia che costituiscono le due vocazioni primarie dell’autrice. Tale rapporto è rimasto implicito nelle sue prime opere ma da Si chiude da sé in avanti si è prepotentemente manifestato, con l’inclusione di foto e talvolta anche acquerelli (come in Reattivo di valle), in tutta una serie di declinazioni, con risultati a mio parere eccellenti, che fanno delle sue opere dei veri e propri preziosi “libri d’arte” o artefatti nel senso originario del termine. Accanto alla polifonia, alla sinestesia e a uno spiccatissimo senso dell’humour, l’intermedialità costituisce dunque uno dei tratti salienti della poesia di Montanari.    

Ad essi bisogna aggiungere poi una notevole sfrontatezza e una costante autoironia che costituiscono le due facce di una spiccata urgenza di mersi a nudo, di sputtanarsi si direbbe per poter sputtanare l’ipocrisia del mondo (“Oltraggio all’ipocrisia” è infatti il titolo del suo primo libro). Per tale motivo e per il suo linguaggio disinibito e talora addirittura sboccato, è stata definita il Bukowski della bassa romagnola, ma io preferirei piuttosto accostarla a Rabelais per la comicità gastronomica, a Gadda per i baccanali di linguaggio che ci propina, e specialmente a Celine per lo schietto cinismo, la sapiente commistione dei registri linguistici alto e basso, l’audacia delle figure retoriche e lo humour nero che ne impregna la scrittura. La sua propensione quasi compulsiva per i calembours e le paranomasie, proprio a partire dai titoli delle sue varie opere (l’ultima edita si chiama “Anatomie comperate”) ci fa pensare inoltre al nonsense come genere di riferimento, e non soltanto letterario. La sorda demenza della vita quotidiana da un lato, e dall’altro la follia dell’arte sono infatti i due poli tematici ricorrenti nella sua produzione.   

Quest’ultima raccolta inedita di cui ora ci occupiamo non fa eccezione ma ci riserva alcune sorprese per quanto riguarda il rapporto fra testo e immagini. Divisa com’è in quattro sezioni, ciascuna dal titolo paradossale e suggestivo (“La cerchiatura del quadro”, “Motore. Inazione”, Nausicaa, Maestro!”, “Senz’arte né sorte”), la raccolta ci presenta una svolta originale e sorprendente nella declinazione della intermedialità che ha caratterizzato tutta la carriera dell’autrice. I singoli componimenti si presentano infatti come una serie di glosse a margine o piuttosto di trascrizioni rispettivamente di quadri, film, canzoni pop e tranches de vie dell’io poetico fissate in altrettante istantanee, di cui (almeno in questa stesura provvisoria) ci vengono offerte però solo le descrizioni a piè di pagina. Questa trovata poeticamente proficua e sociologicamente interessante, trasforma di fatto il testo in un ipertesto, mettendo alla prova le competenze enciclopediche del lettore e stimolandolo a informarsi eventualmente in rete; nell’ultima parte poi, dove il referente icastico è soltanto descritto (cioè nel contempo evocato e precluso), enfatizza per assurdo l’autoreferenzialità del testo poetico in quanto tale, interrogandone implicitamente l’ontologia. Nel complesso il rapporto fra testo e contesto, sia mediatico che culturale, viene pertanto illuminato per flashes e affondi, scandagliato con impietoso umorismo nelle sue pieghe-piaghe più riposte e purulente.        

Nella I sezione specialmente è la follia a venire messa a fuoco come termine medio fra arte e vita, a partire dai primi tre dipinti menzionati: “La nave dei folli” di Bosch, “Il sonno della ragione” di Goya e “Vedova nera” di Ligabue. Nella II sezione, l’humour assai spesso “nero” di Montanari si esercita invece su dei film piuttosto noti, di cui i componimenti appaiono come delle minisceneggiature, come per esempio quella di Madame di Amanda Sthers, 2017: “Mia madre?/ Attualmente è morta./ Posso passarle l’ombra che ne fa le veci.” (28)   O di Joker di Todd Phillips, 2019, una sfilata di maschere che eccedono la pantomima del soggetto: “sono l’humor nero che mischi al gin fizz./ …. sono il pifferaio che recluta ratti/ con esche di rivolta e risate.” (31)  O di American Beauty di Sam Mendes, 1999, con close up impietosi, che mettono a nudo le piaghe della vita, e piccole dosi omeopatiche di cianuro sparse nei manicaretti umoristici, per curarle: “Oggi è il primo giorno della fine della mia esistenza./ Rose rosse/ prato verde/ steccato bianco.” (32)

A proposito del rapporto fra arte e follia è opportuno ricordare che la protagonista dell’ultima opera in prosa dell’autrice, il giallo letterario L’Argatil, pubblicato nello scorso mese di Marzo, è proprio una poeta folle, la fantomatica Maria Marchesi che nel 2004 vinse il premio Viareggio con lo splendido L’occhio dell’ala, ma che non ha lasciato alcuna altra traccia di sé. E che le scene ambientate in manicomio raggiungono delle vette non comuni quanto a empatia e mimesi dello stravolgimento psichico come incentivo alla “terapia” poetica.

Humour folle (nonsensical) dunque, non privo di connotazioni metafisiche e metapoetiche che balzano fuori da un umbratile fondo autobiografico, come nel caso della stringata squisitezza eucaristica del “Pranzo di Babette”, che suggella il miracolo dell’incarnazione della Parola: “Lingue per mangiare e per pregare./…Porterai via da questa vita quello che hai donato:/ un buon pasto, un verso, una relazione senza affanni.” (45) Piuttosto che in quello dell’Asino del quartiere, “Stopposo di pelo e di pensiero,    / …esitante/ tra la limpidezza dell’essere/ e la consistenza dell’apparire.” (71) O della descrizione della foto di “un giradischi e vecchi album di classica” che diviene lo scenario di una tragedia greca in parodia dove il destino è un solista e “il coro un compromesso”, e dove “Gli amori stonati escono di scena come le stagioni/  ma con più baccano e meno colori.” (75)

Fra le tante maschere di questo carnevale in agrodolce, infine, discrete ma letali si aggirano le figure parentali di una triangolazione edipica mai risolta che caratterizza l’intera opera di Montanari. Il padre seducente tiranno e la madre succube e complice. Ma questa è un’altra storia, forse ancora tutta da scrivere.