Erika De Felice – Lungomare – Zara. Nota critica di Giacomo Cerrai

Premio Bologna in Lettere 2021

Erika De Felice – Lungomare – Zara.  Nota critica di Giacomo Cerrai

 

Quella di Erika De Felice è poesia colloquiale, in conversazione con un tu di riferimento (“hai mai pensato…”, “per ricomporsi sai…”) che è specchio ed assenza, o forse è – almeno poeticamente – un alter ego con cui rapportarsi. Il luogo, l’ora (22.45 dei giovedì dispersi) sono puri palcoscenici, come quando si rimugina guardando l’orizzonte seduti su un molo, la presenza fisica è marginale rispetto al lavorìo del pensiero, la verbalizzazione di questo pensiero è connotata da una frammentazione di quello che poeticamente si riesce e si vuole ricordare, registrare a futura lettura, che poi è in parte il meccanismo della memoria (tutta questa poesia è in fondo memoriale e perciò elegiaca), e quindi secondo una procedura (non tanto retorica o testuale, quanto magari psicologica) metonimica (una parte frazionaria per il tutto, ad es.: “Le tue spalle / e il mio peso del mondo / solo questo ricordo / questo solo di te”), di cui anche la scrittura, la forma sono specchio. Un procedimento che rende questa poesia decisamente affettiva e perciò stesso immediatamente – diciamo – agréable, nel suo poggiarsi in definitiva su un ventaglio di sentimenti di privazione e di solitudine che conosciamo, che sono umani e quindi a noi (terenziani lettori) non alieni. Ma il sentimento di inquieta aspettativa di qualcosa non destinato al ritorno, al recupero, al nuovo abbraccio, quel sentimento è definitivo, “come una notte che non risorge”, ci dice l’autrice. Questa mancanza di un’alba (o qualsiasi speranza) è agnostica e perciò conchiusa in sé, qualsiasi esperienza in fondo, per quanto ripetibile  in   poesia, avviene per consumazione della stessa come in un giorno anch’esso ripetibile, “quest’oggi [che] non è passato”, qualcosa a cui forse ci si abitua (“nulla mi ripugna di te / nemmeno la morte che scorre sottile / nemmeno questo pallido vento”) ma a cui in fondo non si vuole credere (“e dimmi, alla fine / è poi questa la fede?”). La poesia dà voce, come può, a questo dibattersi come all’interno di una Skinner box, una gabbia da esperimento, una condizione che ha un che di destinale, di ontologico, forse – come l’angoscia – non del tutto sensato quanto irriducibile. “Questa vita – corpo confuso / ci contiene per sbaglio”. Il resto del mondo appare precluso.