Premio Bologna in Lettere – La nota critica di Enzo Campi su Michela Gorini

Michela Gorini, diario del sangue delle ossa

 

Paradossi psico-agenti e vettori anatomici.

I nodi dell’elaborazione.

 

 

Al di là di un altro lavoro, più ampio e circostanziato, sulla poetica di Michela Gorini, rimandando ad altri contesti un’ulteriore e più approfondita visitazione, mi tocca accennare a qualche nodo cruciale del discorso enunciativo della sua ultima fatica letteraria: diario del sangue delle ossa. L’ultimo lavoro di Gorini si rende simile alle opere precedenti nella prosecuzione di un percorso-discorso sulle figure-di-senso, ma risulta anche diversa nell’innestare un differimento dell’alterità verso un’anatomia aggiunta che si sovrappone all’alterità dominante creando così una sorta di «femminile duplice».

Entrambi gli elementi di questa duplicità lavorano ai fianchi, cercano e trovano il contatto procedendo dai margini verso l’interno, ovvero dai confini, dai limiti verso il cuore, il nocciolo, il punto ortivo. Ci troviamo quindi a fare i conti, letteralmente, con un’alterità dominante, quella dell’autrice, e di una cosiddetta alterità soggiacente, quella della madre, la cui voce è indirettamente riferita dalla sua stessa referente.

Non è un concetto complesso: si tratta di una figlia che restituisce la voce «ideale e idealizzata» della madre attraverso la sua stessa voce.

Ma la voce non è propriamente quella della madre, è una voce filtrata da una volontà desiderante che, una volta abbandonati i territori della disappropriazione, agisce su registri visibilmente tendenti verso l’appropriazione. Paradossalmente, ma nemmeno più di tanto, sarà proprio questa appropriazione a creare quello che si potrebbe definire «effetto-separazione».

Faccio un breve inciso: procedendo per grandi linee, mi sembra che qui si riproponga il dispositivo che avevo definito come una predisposizione a quei circuiti minori dove l’affetto si tramuta in affezione. Un’ulteriore differenza consiste nel fatto che il passaggio tra lo status dell’affetto a quello dell’affezione non avviene attraverso un processo di traslazione ma mediante un’azione di sovrapposizione cerebro-anatomica. I due cervelli e i due corpi dell’alterità dominate e dell’alterità soggiacente si toccano, quasi si penetrano a vicenda fondendosi in un’unica entità.

Gorini pratica i territori dell’affezione per abitarsi e per abitare quella cosa che finalmente si può vedere e toccare. Ed è addirittura possibile darle un nome: la madre.

Come sempre accade nella scrittura goriniana oltre alla canonica alterità (che, beninteso, è già sovrastrutturata) c’è sempre da fare i conti con il terzo, che qui non si limita solo alla funzione di testimone ma tende ad assumere il ruolo di protagonista. Si tratta di un corpo estraneo che, poco a poco, diventa parte integrante dell’anatomia e conquista progressivamente una sorta di centro d’evidenza proponendosi come soggetto dell’ordine del discorso o quantomeno come soggetto primario da cui tutto nasce e in cui tutto muore. Anche questo corpo estraneo ha un nome ben preciso: il cancro.

La saga, quella scandita diaristicamente come cronaca di un dato di fatto, verte proprio sull’incontro-scontro tra la cosa-madre e l’intruso-cancro e viene scandita attraverso una lunga, quasi estenuante, elaborazione del lutto, che assume, a tratti, toni e ritmi quasi invasivi per il fruitore. 

Gorini, in quest’opera, in un certo senso monologante, usa un linguaggio plastico, materico, in costante e fuorviante movimento, così come Ejzenštein definiva il monologo interiore alla stregua di un proto-linguaggio o di una lingua primitiva.

Nel monologo cosiddetto interiore, sono al lavoro, almeno tre voci, tre diverse anatomie che tracciano tre diverse linee di divaricazione: a) l’abnorme soggiacenza della madre, b) l’impotenza, l’analisi e l’elaborazione della figlia, c) l’aberrazione invasiva e distruttiva del cancro, beninteso ognuna indiscernibile dall’altra.

Si tratta di una disseminazione di segni specificanti, così come direbbe Deleuze, di affezioni che divengono vere e proprie figure linguistiche. Così facendo, Gorini conferisce un’estensione al suo monologo interiore. Un linguaggio quasi sincopato, a tratti nervoso ma fluido, che porta la morte al suo compimento qualificandola e specificandone i sintomi, ovvero: i passaggi da uno stadio all’altro, da un piano all’altro, mediante dei segni che divengono vettori, tracciano e insieme indicano la direzione da seguire per avvicinarsi il più possibile all’orlo del precipizio, al punto-limite, al margine-ultimo oltre il quale nulla può ancora accadere se non la reiterazione del ricordo  perpetuato dalla e nella  scrittura.

Ed è così che gli stadi della malattia divengono stratificazioni linguistiche.

Ed è anche per queste ragioni che il testo si agita (o viene agitato) in un movimento   complessivo che è la risultante macro-linguistica di innumerevoli piccoli movimenti, tra loro concatenati, che non cessano mai di separarsi dal tutto e allo stesso tempo di ricongiungersi al tutto. E il tutto, questo tutto che qui si dipana e si ri-attorciglia, è per l’appunto composto dai tre soggetti che, confluendo nella “sola voce” della scrittura, dettano le leggi della costruzione e della distruzione dell’opera. Non bisogna sottovalutare questo registro distruttivo che potremmo definire anatomico-temporale e che rappresenta l’elemento fondamentale per la costruzione o, per meglio dire, per la ri-costruzione di un’abnorme divaricazione linguistico-concettuale.

 

(Enzo Campi)