Premio Bologna in Lettere – La nota critica di Francesca Del Moro su “Periodicamente ricicliamo cliché” di Ofelia Prodan

Ofelia Prodan

Periodicamente ricicliamo cliché

 

 

La silloge di Ofelia Prodan si articola come un lungo poema allucinatorio in un crescendo che accompagna l’introspezione, distorta e al contempo lucidissima, da una dialettica tra tensioni intrapsichiche e stimoli esterni fino alla completa immersione nel magma psicotico, nella fusione con una dimensione post-apocalittica che prelude a un nuovo big bang. Assecondando tale sviluppo narrativo, l’iniziale predominanza della terminologia psichiatrica lascia il posto a un linguaggio e a molteplici riferimenti afferenti alla fantascienza, da Asimov a Star Trek, a Matrix. Se lo stato allucinatorio, in psicologia, viene definito come “percezione senza oggetto”, qui siamo in presenza piuttosto di una percezione senza soggetto. Eppure, tutto è narrato, o per meglio dire descritto (Enzo Campi parla di “drammatizzazione della descrittività”), in prima persona. Ma l’io che si nomina in quanto tale non ha una reale presa su di sé ed è dissociato al punto da sdoppiarsi di continuo per dialogare con un ‘tu’ alter ego.

Questa dissociazione permette all’autrice di osservare i fenomeni che la riguardano annotandone scrupolosamente i dettagli. I versi, che sfumano più che mai i confini tra poesia e prosa, seguono sostanzialmente il registro della cartella clinica. Siamo nella fase della semplice registrazione dei fatti, che raramente accoglie slanci interpretativi e mai lascia spazio al trasporto emotivo.

Si riscontrano stati di felicità, che in via ossimorica è peraltro definita ‘apatica’, e qualsiasi cosa possa rientrare nel campo dell’emozione viene riportata immediatamente a una dimensione più scientifica, misurabile: “gongolo di felicità, sono serotonina, sono ossitocina”. Le relazioni sono asettiche, la disinibizione è un effetto della sindrome maniaco-depressiva. Quella che viene definita personalità disarmonica non prova davvero serenità, empatia, amore ma può solo imitarli.

Nella prima parte della silloge, entrano in gioco alcuni personaggi: la capa ninfomane, la psicologa psicopatica, la psichiatra della mutua, gli “psicopatici con mansioni”. Sono soprattutto funzionali al “periodico riciclo dei cliché,” che dà il titolo alla raccolta, incarnando a propria volta degli stereotipi. L’io narrante, in apparenza disponibile alla cura, rivendica sostanzialmente il proprio diritto alla dissociazione, alla psicosi, all’appartenenza a quella che qui si definisce “una razza stralunata”, in pratica alla follia.

Il folle, come spiega bene l’autrice in un’intervista, in passato era spesso visto come una specie di santo e ha accesso a mondi che gli altri intuiscono appena. Apparentemente impegnato in una vita normale, si dedica alla costruzione di una vita interiore propria che rivendicherà sempre più spazio fino a completare il distacco dalla realtà. È il principio di Matrix, di cui vengono nominati i protagonisti: in questo senso, i personaggi-cliché altro non sarebbero se non il frutto di una neuro-simulazione interattiva costruita sul modello di un mondo non più esistente. Del resto, le parole cliché e matrix sono sinonimi, essendo uno dei significati di cliché quello di “matrice zincografica per illustrazioni da inserire nelle forme di stampa tipografiche”.

Il termine cliché attiva qui la propria polisemia mettendo in gioco anche la valenza di “concetto, giudizio cristallizzato, atteggiamento banale, scontato”. Tali sono le valutazioni e le raccomandazioni con cui gli psicologi pretendono di curare quelle che considerano patologie. Non dormi abbastanza, non mangi regolarmente, la tua autostima è bassa, esageri col fumo, col caffè, con la scrittura a ritmo demenziale, hai tendenze esibizionistiche sui social network, perché non esci, non provi a socializzare, a cucinare una zuppa o uno spezzatino, ad andare al cinema, al teatro, a fare una passeggiata nel parco, a viaggiare… i consigli scontati si susseguono in dialoghi volutamente abbassati al livello di una prosa piatta per meglio segnare la distanza tra la banalità del quotidiano supposto ‘sano’ e l’altra dimensione che, per l’autrice, funziona secondo leggi matematiche più complesse definibili come leggi di sovra-logica.

Queste prendono il posto delle leggi e delle convenzioni alla base delle interazioni sociali, la cura di sé, il lavoro, gli affetti, perfino gli svaghi e il tempo libero, per far posto a nuove possibilità, plasmare nuove realtà, molto più ricche e animate. È una pratica apparentabile a quella dell’onironauta, che vive l’esperienza del sogno lucido, riconoscibile, nei versi, in quello che l’autrice chiama “delirio in trance cosciente” ovvero “quello stato tra la veglia e il sonno che è simile alla trance sciamanica”.

Nella trance intervengono frammenti di una realtà deragliata che nella scrittura prendono corpo in uno stile debitore della mistica, del surrealismo, il dadaismo, la patafisica e soprattutto della tecnica del cut-up che per Burroughs era l’unico modo di rappresentare il fluire della coscienza tagliato da fattori causali, affrancandosi dalla camicia di forza della sequenzialità.

Poco oltre un terzo della silloge compare una poesia intitolata “Stop”, in cui possiamo riconoscere una prima cesura nel fluire poematico. Il titolo segna la decisione di interrompere i colloqui psicologici, di staccarsi dai cliché. Ed è a questo punto che l’interlocutore privilegiato, nonché sorta di alter ego, diviene l’androide Data di Star Trek. È forse lui l’eroe atteso, il “lui con l’aura del salvatore” (altro cliché) chiamato in causa in precedenza in un dialogo con la psicologa.

Nell’incontro fantastico con Data, l’io si svuota a poco a poco di ogni briciolo di umanità, vivendo le emozioni attraverso un cervello positronico con infissi cavi elettrici finché si arriva a un’altra poesia-cesura, all’incirca ai due terzi della raccolta, “Il corpo e l’essere interiore”, che mette in scena l’immagine surreale del cammino su trampoli giganteschi, sovrastando la città. Si determina qui una scissione dell’io con una parte che vaga nel mondo esterno e l’altra che perlustra l’interno. Finché è nell’interno che si cadrà, divenendo parte di un programma di simulazione a guisa di un software, di un androide con il chip delle emozioni disinnescato, un’entità artificiale e labile che un bambino può spegnere distrattamente con un clic, un feto di sé che alla fine si decide di abortire. (Francesca Del Moro)