To touch or not to touch – La prefazione di Vincenzo Bagnoli

Caro lettore, hai davanti a te, dopo queste mie poche parole, una prova cui nulla può averti preparato: un poema di 120 pagine. Così almeno si presenta il testo, nella sua materialità: una sequenza di versi che si estende ininterrotta e incatenata da rime, enjambements, iterazioni ossessive. Ma come si può definire meglio e presentare quello che ti attende?

Quando si pensa a un poema, a un testo poetico lungo, possono affacciarsi alla mente i classici studiati a scuola, dell’antichità o del medioevo; o più credibilmente, come termine di paragone, la “poesia ininterrotta” di Eluard, quel movimento di espansione dall’uno a due fino all’orizzonte di tutti che si disegna nel dipanarsi di una versificazione continua attraverso un fiume di metafore. Di recente, per esempio, si è parlato di poema ininterrotto per la poesia di Francesco Marotta (nell’antologia poetico-critica curata da Marco Ercolani per Carteggi Letterari).

Ma si potrebbe pensare anche allo straordinario esercizio di poesia (a suo modo civile) di Roberto Roversi, che con L’Italia sepolta sotto la neve ha realizzato attraverso tre decenni una sorta di diario poetico in pubblico, fedele anch’egli alla propria vocazione: alla convinzione, cioè, che dopo una poesia un’altra debba seguire, senza arrestarsi mai, senza arrendersi.

L’esperimento di Campi ha similitudini con queste istanze creative, ma ne resta differente, perché condotto su un’altra scala.

Dalla lingua non si esce, scriveva Wittgenstein. E dalla lingua To touch or not to touch? non esce: si abbandona al suo fluire, al suo autogenerarsi per echi metonimici, richiami e slittamenti nelle zone di ridondanza del pensiero, quella parte limbica del cervello postadamitico che produce significanti inesauribilmente, come in uno stato di semicoscienza, come un’attività basale dell’essere umano.

Non ci viene presentato, insomma, il novecentesco stream of consciousness, ma al contrario un flusso di incoscienza, o di subcoscienza. Che rinuncia alla presa, al grip, alle funzioni degli ‘atti linguistici’ e si arrampica sui fastigi del suono ma come assenza, della “griglia dei significanti” e di un’affabulazione sempre condotta sull’onda dell’ambivalenza: “è tutto provvisorio, è tutto / intercambiabile, nulla si ferma”. Così questo precipitoso flusso insegue interlacements, intrallacciature di sensi e identità “forzando l’ / estensione, moltiplicando i poli”. E da queste intrallacciature, come vuole Derrida, nascono le figure, “orda famelica d’ / antifrasi e perifrasi” e al tempo stesso “la presenza incombente della rimozione delle figure”. Qual è la funzione di questa fuga logica, della continua contradictio in adiecto che anima e muove insieme all’enjambement ossessivo il testo, del “continuo / rovesciamento”?

“Ciò che conta è fingere di / definire lo sfinimento e giocare sul / colpo di scena dell’ / avvento di una improbabile figura-ultima, che / colpo non è, perché fa scena-di-sé ma solo / per sé”.

E da Derrida infatti Campi deriva anche l’idea della desistenza, non come apologia dell’indifferenziato, benché ci sia il cedimento a questo flusso di lingua – e non di coscienza –, la resa e lo “sperdimento”: non lo spaesamento, ci avvisa il testo, perché ‘perdere/perdersi’ significa agire la mancanza (quella “improduttività” che non soddisfa e “che non sfama l’ / io, né l’ / altro, né il terzo, né noi) come effetto e non come difetto. “Non è un sistema di / sottrazioni, ma di cancellazioni: la / struttura è piena di buchi”: e la mancanza, la désistance, proprio in quanto struttura, anzi “mirabile struttura” e “stupefazione”, si accompagna perciò a una “abbondanza” neobarocca. È infatti una mancanza di esito di semantico, non di flusso produttivo. Sembra voler semantizzare l’universo, ma non lo fa, ci gira attorno.

Tutto si riassume per Campi, uomo di teatro, nel mettere in scena. Ed ecco quindi il barocco, il Theatrum ingenii, con la sua abbondanza di figure, però destrutturato in un mero funzionare della lingua che può ricordare a tratti il monologare di Carmelo Bene: “Poesia è la voce, il testo la sua eco”. Un procedere assecondando l’assenza, perdendo le tracce del pensiero ontologico. La désistance incontra la dépense, quindi. Ma non in un oblio puramente dionisiaco.

La meta è anzi la ricerca di una intensità nell’arte-fatto, un concetto di Campi che rimanda all’idea di testo installativo più che performativo, consistente anche in una rinuncia alla fisicità. La fisicità ‘desiste’ in un fiume verbale, un logos senza ragione, un vuoto beckettiano di senso, ma in questo desistere conserva l’intensità: “le figure sono parte integrante del / flusso, scorrono in esso raddoppiandone la / mobilità, rinnovandone l’ / intensità, è una questione di energia, / sempre e comunque, e che sia / elargita o sottratta poco importa”. Questa intensità, si vede bene, non è fisicità, ma fenofisicità: e ciò toglie ogni dubbio, se ce ne fosse bisogno, sulla posizione del testo rispetto alla sua possibile assertività. Il passaggio alla fenofisicità significa infatti assumere in sé il ruolo dell’artefatto.

È a tutti gli effetti una installazione che però in re, nella sua materia verbale, sa malgrado tutto affascinare i sensi e l’intelletto, sa catturare nelle proprie orbite semantiche l’intelligenza del lettore, sa guidarlo in attraversamenti e concatenamenti, facendosi percorrere nelle sue sequenze: magari a sbalzi, non certo secondo una sintassi testuale univoca, unilineare, euclidea e newtoniana.

Campi è convinto che l’intensità si manifesti solo in extenso, spazializzandosi, spaziandosi, occupando spazio in una moltiplicazione che non è solo spostamento di piani: il movimento come prosecuzione. L’opera insomma è spaziamento, invasione di spazi, in quanto è flusso: ripetizione, anzi serialità, fatta di fluttuazioni quantistiche del linguaggio per approssimazioni e sbalzi rispetto a un centro (la cui esistenza è però schroedingerianamente indefinibile: è un “ipotetico centro che non si può conquistare”) e che tracciano orbitali di iterazioni.

To touch or not to touch? Ma la possibilità fisica in realtà non esiste: tocchiamo veramente qualcosa? Gli atomi entrano a contatto o i campi di energia consentono soltanto lo sfioramento della materia? Le parole toccano le cose? Touching from a distance è il tema struggente di molta postmodernità, eletta a tema da alcune sue declinazioni più nichiliste. “Unica cosa che ci resta da fare è desistere, / agire nella desistenza, / o farsi agire dalla desistenza, riproponendo l’ / ennesimo flusso, io, e voi, come se / tutto ciò avesse una valenza”: Campi da par suo, aggira il problema, nel senso proprio di girarci attorno in modo inesausto, non si limita a constatare l’impossibilità di compiere the hardest walk from a to b to c (“la dimora è la / solita stazione, la prima stazione”), ma si dipana in tutte le infinite traiettorie circolari attorno a essi.

(Vincenzo Bagnoli)

 

Una lettera di Giuseppe Martella

In forma di missiva: Enzo Campi, To touch or not to touch (la Désistance), Puntoacapo Editrice, 2022.

Una recensione di Silvia Comoglio

OGGETTO COMPLESSO. Silvia Comoglio