Premio Bologna in Lettere 2023 – Lella De Marchi – Nota critica di Michela Gorini

Premio Bologna in Lettere 2023

Sezione B (Raccolte inedite)

Nota critica su Lella De Marchi, Le stanze di Emily

 

 

 

Le stanze di Emily invita il lettore a spostarsi oscillando tra due piani, una Visione d’insieme e una messa a fuoco, tra i dettagli di scena. De Marchi delinea, nell’insieme, una mappa di lavoro sulla creazione di un’opera di scrittura. Una mappa su la verità nel testo scritto, connettendo tra loro laboratori, estensioni del corpo, oggetti del corpo, immagini dell’io, ipotesi dell’io, fino far dialogare una struttura a interlocutore unico e molteplice. Una struttura dialogante vis à vis con i propri abiti di scena, modulati, personificati e dismessi, fino a un celato nucleo fantasticato e deposto. La verità troppo forte della propria nudità, per De Marchi, occorre dirla obliqua, senza mentire.

L’oggetto sguardo si diffonde scaltro nel testo, ad ogni passo ad ogni stanza nel flusso lessicale, nella percezione linguistica del contesto. La voce fatta oggetto si rinnova a segno di presenza, al risveglio, cosificata, transitata, appiccicata al luogo. Ogni oggetto è potenziato di stanza in stanza, da intoppo a mostrazione, e depotenziato per la via del linguaggio che lo posa definito, senza margini, su una scena di riposo mancata. La scrittura è vibrante, si acceca dei suoi spasmi, diramazioni, quotidianità. La scrittura è essa stessa oggetto in scena.

Le stanze attraversate da testimone, alla ricerca di una luce che illumini l’opera e non la chiuda, scorrono per immagini contigue, sfaldando costante un’ipotesi d’essere, solidificata evanescente astratta, in abito dismesso e non indossato – solamente transitato – in una stanza qualsiasi, in una sequenza di io aperti, estemporanei, appesi a pareti stagne. Lo stesso sfondo è un corpo che non delimita e non definisce. Uno sfondo costruito da un intenso lavoro di lettura e rielaborazione di voci femminili ad opera dell’autrice, voci che transitano a più angoli della propria costruzione poetica. De Marchi scrive in alternanza, per fasi, spazi, spostamenti, dal cuore del particolare alla mondanità, dal gesto al pensiero. Ci conduce dal reale dell’oggetto al simbolico dell’operazione di scrittura e calibrazione del segno, e viceversa. I quotidiani oggetti di culto all’interno dell’opera, si succedono elencati come tessuti significanti in una struttura ferocemente linguistica. Una lingua da cui dipartire – e rientrare – per eccesso lessicale, fino al collasso, morire chiusa in quello in cui non crede.

Nel vivo delle sezioni, incontriamo l’attore / autore messo a fuoco, nella stanza – se stesso mai se stesso mai lo stesso – e il primo oggetto, il cassetto. Vuoto, pieno, madre di ipotesi, il cassetto foglio bianco da riempire e svuotare, il cassetto che resta da solo e non si può vedere, solo intendere. Dal dettaglio all’insieme, da istante a istinto, De Marchi si coglie vedendosi da fuori, leggendosi accadere, tra spasmi notturni e luci mattutine. La spalliera del letto porta segni della voce che si è posata, nell’alternanza notte / giorno, particolare / sfondo, una voce che al mattino si sente moglie tradita

Il registro suona una pluralità di voci in alternanza, che si generano e rigenerano, la narrazione prende tessuto di fiaba, traccia al bordo di una poltrona, alla trama della sua fodera, in un’alternanza scrittura/oggetto di scrittura. Innati movimenti narrativi confondono il lettore, smembrando nudità e verità. Preferisco / non vedermi, scrive, non tradirmi, e poi, non tradurmi. Si destrutturano corpo e membra e significanti in una serie, come scatole cinesi, fino a confondere sensi e sonorità, memorie segnate dal tempo, strati dell’esser detta, a patto che il testimone iridato linguaggio dai tutti colori, le sia fedele. Fedele è il nome, che De Marchi conta di salvare. Lo eleva a potenza, e mentre / lo salva lo rende inguaribile. “Salva con nome” è in effetti l’operazione che si compie dopo aver scritto, perché un testo resti, scritto. Perché resti, inguaribile, altrove, in altra stanza. Ciò che resiste, a fine struttura, è il mutismo delle cose fatte oggetto, l’incrinatura, la luce nelle crepe, luce che spezza un paesaggio di versi slittato su file-stanza, un contenitore metonimico di cose piuttosto vere piuttosto non vere, un soggetto svanito e ancora non nominato, accessibile solo da remoto, a condizione che resti dato condiviso. Che resti poesia, la cosa che ho più vicina / alle cose che non ho. (Michela Gorini)