Premio Bologna in Lettere 2023 – Sandra Branca – Nota critica di Antonella Pierangeli

Premio Bologna in Lettere 2023

Sezione C (Poesie singole inedite)

Nota critica su Sandra Branca, Tre inediti

 

Nella poesia di Sandra Branca la parola è più comunicativa che evocativa. Tanto che la stessa comunicazione, quando non sa più pronunciarsi, tace. È in questo modo che la poesia mostra il suo rifiuto netto, elegante, e quasi dovuto, verso una parola allusiva, enigmatica.  Infatti mentre nell’atto maieutico e esplicativo si scelgono parole che sono eterne solo in chi le ha pronunciate, o ancora più, in chi le ha prima possedute, salvaguardando in questo senso la funzione ermetica, per la Branca, al contrario, le parole sono un filo teso tra due abissi, di eguale profondità, che strappano la memoria dall’oblio. La mappatura di un diagramma esistenziale vasto, che non ha paura di dire, nel tentativo di avvicinare fino in fondo il catalogo dei destini che ci circondano: “La traccia di tanto in tanto salta, un singhiozzo/ senza seguito, un punto, la parola. /La parte sommersa più a fondo s’incaglia.”. Una parola calibrata, ridotta al frammento e limata fino a eliminare il superfluo, quasi un prosimetro imploso: “Frammentati, un sistema preso a pezzi/una dimensione per volta, a chi il pensiero/ a chi il sesso, a qualcuno il difetto o il gesto”.  Ne scaturisce un lucido spaccato della nostra imbarbarita e depauperata capacità di comunicare, con il primitivo e naturale strumento che fu, e dovrebbe essere, la “parola”, quella tutta “umana”, cioè semplice ed essenziale, assolutamente aderente a ciò che dentro siamo e al nostro rapporto con la realtà: “[…] è così che deve andare, è così /che vanno le cose. secoli di cardini. […]”. A questa legittima esigenza di un’umanità in lento processo di disumanizzazione e desertificazione emotiva, Branca oppone una forma quasi dialogica di resistenza e di analisi del reale, che conferisce un senso all’atto stesso del fare poesia. Nella scrittura-fiume che caratterizza questi tre inediti, è la percettività della poesia a condensarsi nell’enunciazione di un grido inascoltato che si perde nel vuoto. La struttura stessa dei versi, con movimenti vorticosi suggeriti da un fluire veloce e ininterrotto, sembra richiamare nei concitati ritmi dell’enunciazione, una sorta di disperato e affannoso inseguimento nei confronti di un’alterità sempre fuggevole, quasi la scrittura fosse condannata ad ordinare un senso provvisorio, dove, nella sua integralità, non può essere riconquistato, perché orrendo e impossibile da metabolizzare. La lingua dunque non è più soltanto mezzo espressivo, ma centro focale ineludibile della rappresentazione poetica, un incontro capace di mantenere l’indipendenza tra i diversi soggetti che sono però capaci di fondersi e sovrapporsi in un’iconica rappresentazione: “Di tutte le foto che ho tra le mani/la più vicina è quella mossa, una distorsione/cromatica sfibra i contorni, un bug risale ai ricordi.” La poesia è certamente nel cromatismo sfibrato della vita, nel modo in cui si possono osservare minimi eventi, rapide mutazioni sensoriali, piccole epifanie chiaroscurali. Non si tratta di una poetica di retroguardia, quanto di un sofferto ritorno a una temporalità nitida nella sua chiarezza espressiva. In un mondo sopravvissuto alla sua polverosa dissoluzione, esposto nella sua apparente nudità, solo recuperando l’umano si può intuirne l’inventario privato: “…eccomi, occupo l’ennesimo spazio di un/foglio bianco, vado fuori, nell’inconoscibilità della/folla, senza volto…”. Il linguaggio racchiude così nel suo essere “[…] le cose da dire che con gli anni si/consumano, diventano oscure; il non detto ci investe […]”, abita gli oggetti e affiora nelle gole, nelle crepe, nei rovi che puntellano gli abissi dove la parola ama addentrarsi. L’urgenza di svelarlo porta fin dentro stanze e finestre aperte: qui, nell’atmosfera lieve e ovattata di una penombra mentale che si anima, si possono mettere insieme versi in frammenti, simili a brevi racconti: “[…] la voce riecheggia/ nel vuoto, sul bianco. a chi parlo. tutto è viziato. Ancora/ non accetto che non esisto, dimmi il soggetto implicito/ di scrivo per agire.” In effetti, le parole sono tutte lì, sulla pagina, e documentano un’oscillazione continua tra la tentazione di farsi parte di una ritualità e il tentativo di superare la distanza tra Io e mondo, riscoprendo le forze che ci connettono a esso, dal suo interno, senza forzare i sensi e compiendo gesti non ancora dimenticati. (Antonella Pierangeli