Premio Bologna in Lettere 2023 – Gregorio Tenti – Nota critica di Sonia Caporossi

Premio Bologna in Lettere 2023

Sezione A (Opere Edite)

Nota su Gregorio Tenti

Corpi sommi

Transeuropa Edizioni

 

 

C’è una grazia particolare, evocativa e insieme esplicativa, nella citazione da Zanzotto che apre la raccolta di Gregorio Tenti: “Corpi sommi. / Vi vedevo scorrere veloci / oltre il campo del vedere”.

In effetti, con questo libro, ci troviamo oltre l’orizzonte visuale di attesa della cosiddetta scrittura di ricerca, anche se pur sempre entro l’aspettativa della condivisione di intenti comunicativi che essa comporta, nonché di fronte al tentativo, per verba, di andare poeticamente al cuore del crepuscolo gnoseologico occidentale.

Gregorio Tenti è un filosofo, un ricercatore e, quindi, per eccellenza, un trovatore. Se detiene infatti un certo livello veritativo il motto di spirito che coniai qualche anno fa il quale recita “la poesia di ricerca, in realtà, è poesia di trovata”, occorre tuttavia ancora spiegarlo al di là del semplice sorriso suscitato, ovvero nella propria cogenza e impulso ermeneutico. La poesia di ricerca è poesia di trovata non solo perché, banalmente, chi cerca trova; ma anche perché chi trova non smette mai di cercare; e Gregorio Tenti, all’interno del panorama della giovane poesia ultracontemporanea, incarna la figura compiuta dell’investigatore del controcampo della parola.

Dico controcampo nella doppia accezione relativa al lemma: sia come inquadratura della macchina da presa che mostra il punto di vista opposto a quello dell’inquadratura precedente, sia come campo elettrico la cui azione è quella di decelerare, e quindi opporsi, al moto della carica elettrica in questione. Semanticamente, la focalizzazione interpretativa di Gregorio Tenti è quella tipica di chi scompone la realtà attraverso una pratica decostruttiva atta a sezionare il dato separandolo dal proprio precipitato. Se il dato è il quid, l’occorrenza, o addirittura l’eventum, il precipitato del dato non è altro che l’elemento residuale giacente sul fondo e che, se si trova sul fondo, vive sul e del fondamento consistendo in un fondato. Allora, l’intero gioco linguistico su cui Gregorio Tenti giostra il proprio discorso poetico si manifesta come un fondamentale (è proprio il caso di dirlo) dilemma estetico-filosofico: se il fondamento è il fondamento, ovvero sé stesso, dev’essere infondato, altrimenti sarebbe fondato da altro e quindi non sarebbe sé stesso; ma il fondamento è pur sempre fondamento di un quid fuori di sé, ovvero di un dato; ergo, il fondamento è fondamento di un fondato; ma come può permanere fondamento se tutto ciò che rimane, ovvero il precipitato, non è altro che il fondato?

Il vecchio problema della metexis platonica e della certezza wittgensteiniana si manifesta qui come il cruccio su cui si basa lo stesso linguaggio poetico in quanto tale. Gregorio Tenti, che è filosofo, lo sa; e tale problema se lo pone in forma non ragionativa, non teoretica, bensì in forma poetica, ovvero estetica, che è come dire: in forma di forma. Ovvero, formando catene sintagmatiche di parole che dietro ai segni mostrano concetti, davanti (non dietro!) ai quali si manifesta, a sua volta, la realtà.

Ma si tratta, precisamente, di una realtà altra, o meglio, una realtà detta in modo altro: è la realtà della parola.

Se la realtà è la somma di tutte le cose reali, allora la loro verità, validità, certezza ed essenza dipendono pur sempre da chi le percepisce come tali. Il linguaggio, in Tenti, da semplice strumento costruttivistico in base al quale non ha senso affermare una realtà oggettiva, diviene fine. E se il linguaggio è il fine, la parola costruisce la propria realtà composta come un mero fatto estetico. È un tema, come si vede, di estetica, di gnoseologia, di ontologia, ma anche di sociologia della conoscenza, talmente radicale da non ammettere posizione di certezza. La poesia, come forma d’arte, non fa che mostrare la forma: e la forma è il fondamento sì, ma anche il phainomenon, tale che il fruitore della poesia come forma d’arte non può che riceverla con la propria costruzione ermeneutica perpetuamente in fieri. A sua volta il poeta, l’artista, l’autore, non può che produrla come qualcosa che si offre al mondo, come fatto estetico del qui-ed-ora e come fatto storico, ovvero come modalità di un sapere infondato sullo sfondo sociale d’appartenenza. Eccolo, il cuore del crepuscolo gnoseologico occidentale: i corpi sommi della poesia scorrono veloci oltre il campo del vedere, tali che a coglierli si è continuamente in un altro campo semantico e in un sistema di riferimento eterodosso; sempre, e senza scampo. Come nella poesia di Gregorio Tenti. (Sonia Caporossi)