Premio Bologna in Lettere 2019 – Le note critiche – Antonio Scialpi / Andrea Donaera

Premio Bologna in Lettere 2019

Sezione B (Raccolte inedite)

Antonio Scialpi, Carne incognita

Finalista

 

 

Complicando (anche lui come tanti nuovi poeti) le connotazioni dell’ormai insufficiente concezione di individualità lirica, Scialpi assesta una poesia composta da un’ipertrofica produzione di immagini, visioni, schematizzazioni puntualmente lasciate saltare in aria – rinunciando alle sperimentazioni, rintracciando invece un modus efficace nella scelta di un dettato liscio ma puntellato di inciampi, scorrevole ma sempre verso un gorgo.

C’è un raccontare, alla base di Carne incognita, una narrazione archetipica e privata, famigliare e intima, nella quale si condensano dolori, atrocità intrapsichiche, innocenze violate. La poetica di Scialpi, sempre alla ricerca di un buco nella rete della tradizione novecentesca, si muove, attraverso le sezioni del libro, dal faticoso esercizio memoriale (grumoso di traumi) ai tentativi di ricomposizione di un corpo deflagrato, baconianamente smarrito brano a brano con conseguenze (solipsistiche) drammatiche che si fanno voce attraverso un apparato di metonimie ricorrenti: «io sono unico blocco / gruppo marmoreo; / prova a dividermi, sfido / e mi spacco»; «Qui la luce t’infilza / come uno spigolo d’aria». L’incognito e la carne. L’incognito è la carne.

La cognizione dell’amore è coniugata a quella dell’orrido e del dolore, attraverso testi che traducono in balbuzie un sillabario privato che non può più resistere sotto i colpi di un io che punisce se stesso per non ritrovarsi, per non riuscire a darsi senso (per essere tutto significante, niente significato: per essere tutto lingua, niente voce). Una poesia che di conseguenza si profila nera e annichilente, che si affida a un’estetica che fora il postmoderno e si aggancia alle convulsioni lynchiane, alle metabolizzazioni precarie della letteratura circostante. Infatti le derive anti-edipiche che costituiscono, in ultima analisi, l’ossatura (scheggiata) della raccolta sono probabilmente le più interessanti: in molti passaggi si verifica una potente elaborazione poetica di un soggetto-schizo, un corpo che non può fare altro che essere disperatamente desiderante – occhi, voce e cervello sono, finalmente senza separatezze cartesiane, parti di un meccanismo letale in cui il vivere è un procedere inesausto da un’iniezione di carburante libidico a un’altra, in un pasticciato piatto/satura che prevede padri, sperma, zii, dialetti, singhiozzi, preghiere, amanti, perdite, salvezze.

In questo libro riceviamo una voce fresca, nonostante diversi riferimenti ad autori della sua stessa generazione (espliciti o impliciti) che infittiscono forse troppo una trama intertestuale: resta però una poesia che, per una volta, può rivolgersi a un pubblico giovane, a un pubblico del ventunesimo secolo che comprende senza titubanze l’orizzontalità arresa di un autore che dice: «Vent’anni e un volto che non senti lo stesso / ma è il tuo». (Andrea Donaera)