Premio Bologna in Lettere 2020 – Nota critica di Daniele Barbieri a Giusi Drago

Giusi Drago, Correggere le diottrie (Oèdipus edizioni)

Sezione A – Opere edite – Primo classificato

 

I tre occhi di Giusi Drago

 

 

 

È il terzo occhio, quello che vede nel sapere e nella saggezza, a non patire miopia, e a non aver bisogno, di conseguenza, di “correggere le diottrie”. Ma il terzo occhio sembra aprirsi solo a partire da un trauma, due tagli sulla faccia, il coagulo, la cicatrizzazione. Non solo un processo doloroso, ma un processo fisico, fisiologico, nella carne stessa.

Il libro di Giusi Drago sembra articolarsi tutto attorno a questa dicotomia. Da un lato il pensiero, la parola, la filosofia, la scienza, la storia, tutto il sapere che non ha bisogno di correggere le diottrie perché non ha a che fare con la percezione; dall’altro, la carne, la materia, la natura, la quotidianità, ciò che si vede (con gli opportuni occhiali) ma soprattutto ciò che si sente.

Le due dimensioni sono costantemente interallacciate; l’una non si presenta senza l’altra. L’astrazione viene definita dalla concretezza. La concretezza prende senso nell’astrazione. La poesia emerge dalla filosofia; la filosofia sembra una conseguenza della poesia. E dopo aver navigato a lungo in questo brodo primordiale lacaniano, dove l’inconscio è un linguaggio, e la ragione linguistica una (necessaria) illusione dell’individuo, si approda a un estremo componimento, dopo ben quattro epiloghi, e in fondo a un’illusoria “Nota del curatore” (ancora espressione – per quanto ironica – di un’incapacità di smettere di riflettere dentro lo stesso percepire), un ultimo componimento, in cui appare un’esatta indeterminatezza della lingua italiana, e una chiara dichiarazione di poetica nei confronti della dimensione percettiva, espressa con filosofica precisione: “lascia che la poesia resti poesia / non perché profetica non perché ritmica /non perché sacra non perché ingrata / ma perché ci sono case bianche e solide in fondo / a strade in salita e c’è uno che dice / i segreti a voce alta o bassa / e certi muschi si annusano soltanto / nelle imprecisate vicinanze dei tronchi / per il resto inghiottiti già da vari strati di buio”.

Come non pensare alle parole di Nietzsche nell’aforisma 84 de La gaia scienza? Nietzsche vi scoperchia il potere del ritmo: “Non appena la formula viene pronunciata, letteralmente e ritmicamente esatta, essa lega il futuro, ma la formula è il ritrovato di Apollo che, come dio dei ritmi, può legare anche le dee del destino. In uno sguardo sintetico ci si può complessivamente domandare: ci fu in generale per l’antico, superstizioso, genere umano, qualcosa di più utile del ritmo? Con esso si poteva tutto: dare magicamente incremento a un lavoro; imporre a un dio di apparire, di farsi vicino, di porgere ascolto; predisporsi il futuro secondo i propri voleri, sgravarsi l’anima di qualsivoglia eccesso (di paura, di follia, di pietà, di spirito vendicativo) e non soltanto l’anima propria, ma anche quella del peggiore demone: senza il verso non si era nulla, col verso si diveniva quasi un dio.” L’unica salvezza a questo delirio sacerdotale evocato da Nietzsche sembrerebbe passare dal sottrarre la poesia alla dimensione profetica, alla necessità di dire il vero; sembrerebbe lasciarla essere poesia, con case bianche e solide in fondo, e l’odore nel muschio nel buio. Eppure l’autrice sa bene che pure questa è un’illusione, e che il senso profetico, con il suo vincolo mistico, passerebbe ugualmente, magari velandosi di ermetismo, come una cabala eretica.

Bisogna dunque guardare in faccia il pensiero razionale e le sue espressioni, bisogna giocare tra parola e corpo, tra teoria ed esperienza, tra storia e natura, tra descrizione scientifica e banalità quotidiana. Le emozioni sono talvolta forti, ma finiscono per temperarsi, anche con una certa ironia, attraverso la loro espressione filosofica, attraverso una logica che governa le unioni sentimentali (e il loro disfacimento). E i pensieri più sottili e più astratti, d’altro canto, prendono forma di cose concrete, di rumori di stoviglie, i nomi si congiungono ai pasti, Kierkegaard ai traslochi; insieme, si rende leggero l’inerte e si fa sparire la posta inevasa; c’è la libertà e la fuga dall’insoddisfazione insieme con la casa e la stanza – là dove l’addomesticamento avviene con carezze o con nomi.

In questa dialettica si pone anche l’uso, qua e là, della prosa, che è sempre, in questo libro, portatrice di un linguaggio più filosofico, più alto e astratto; salvo poi spesso riscoprirsi essa stessa verso, una sorta di verso lungo, a cui si alternano dei molto più carnali versi brevi. E in questa dialettica entra anche la pratica, usata nella Parte Terza, di ispirarsi a testi altrui, di altri autori, familiari e amati, a loro volta essi stessi tra il passionale e il razionale: e incontriamo Etty Hillesum come Amelia Rosselli, ma anche Ludwig Wittgenstein e Bertrand Russell, come pure Jung e Pauli.

Poi, c’è il gioco concettuale dei finali. Dopo le Parti Prima, Seconda e Terza, si incontra un’Appendice, e ci si sente giunti alla fine, ma dopo l’Appendice ci sta un Epilogo 1, a cui segue un Epilogo 2 e poi ancora un 3 e un 4. Quando si incontra la Nota del curatore, si crede ancora una volta di avere terminato, ma si tratta in realtà di una Nota in poesia, e il curatore è l’autrice stessa, che riflette senza fine sul proprio operato, esprimendo il timore di non poter concludere, con altre osservazioni dall’apparenza teorica ma sempre piene di cose e di passioni. E non è difficile percepire una vaga eco di Borges in questo intrecciarsi di riflessione e sentimento, in questa emozione del capire che è insieme un capire l’emozione, con il dubbio razionale che avvolge tutto e l’emozione del dubbio che a sua volta si confronta con la concretezza delle cose, con la carne stessa e la sua fisiologia, le sue vertebre – dove, una volta di più, le vertebre sono insieme le ossa che ci sostengono e la loro descrizione anatomica.

Alla fine dei conti, contro quello che si potrebbe pensare, tutta questa complessità non si traduce affatto in un linguaggio astruso e difficile. Al contrario, il discorso scorre pianamente, travasandosi con grande disinvoltura da un registro all’altro, sino – spesso – a renderli pressoché indistinguibili, o naturalmente interconnessi. Le parole sporgono avanzano allungano, come tutto, o come due tulipani rossi dalla terra. Tutto scorre. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose. (Daniele Barbieri)

 

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