Patrizia Sardisco su “Le necessarie convinzioni” di Veruska Vertuani

Premio Bologna in Lettere 2021

Patrizia Sardisco su Le necessarie convinzioni di Veruska Vertuani

 

Nei quarantanove testi di questa raccolta, disposti secondo l’ordine alfabetico dei titoli, trovano collocazione le proiezioni dei «mille piccoli tagli» coi quali l’io poetico si identifica e rispetto ai quali il pianto riesce a tradursi in «fiore in gola», canto, scrittura: linee di frattura che corrono lungo i profili delle vite che la cronaca e la storia ci consegnano come violentemente spezzate (Yara Gambirasio, Pippa Bacca, ma anche i molti morti senza nome e memoria) o colpevolmente lese (Eleonora Calesino, la ragazza di vent’anni estratta viva dalle macerie del terremoto di L’Aquila dopo quasi due giorni, cui è indirizzata la poesia di apertura, 42 ore), lungo le ferite mai sanate di un intero Paese (la strage di Bologna) o lungo quelle del corpo, sotto forma di rime e di rimarginazioni che appaiono come un doloroso «sorriso che si chiude/senza che ne sia nato un figlio», come orizzonti entro cui muoversi, rintracciare verso e direzione.

Lungo il corpo di questa poesia che il corpo smembra ed espone fino alla sua «carne rossa», per accumuli o per salti logici, nel calembour che si offre soccorrevole quanto congeniale artificio retorico per un faccia a faccia con il dolore che non si risolva in vittimismo o sentimentalismo, quarantanove disallineamenti formano una mappatura dell’esperienza e delle «parole su cui galleggiare», nel tentativo di restituirne l’urto e il respiro.

Certamente per sfida, «per sfida a tutto questo infinito», ma forse più ancora per volare oltre le convenzioni, oltre la polvere che arreda la vita con «le necessarie convinzioni», non è tuttavia da una definitiva e pacificata sutura che l’io poetico scrive: «io non cicatrizzo», afferma infatti, «neppure col sale negli occhi».

Ma se non si possono chiudere gli occhi né davvero riaccostare i lembi delle ferite, se non si ha proprio «nessuna voglia di cicatrizzare», soprattutto «quando inghiotti nello stomaco/la parte che delle ali fa volare», forse l’unica possibile “terapia del dolore” non potrà, non dovrà passare dal serrare, dall’oltrepassare un vuoto ostinandosi a negarlo, a nasconderlo: forse, come nell’antica arte giapponese del  Kintsugi, è invece necessario e possibile esaltare le ferite, riparare senza occultare, anzi colmando con materiale prezioso le linee di frattura. In un saggio piuttosto noto anche in Italia, la scrittrice e blogger Céline Santini propone questa nobile arte di riparare il vasellame con l’oro liquido come «una forma di arte-terapia, che invita a trascendere le prove affrontate trasformando in oro il piombo della vostra vita. Le vostre cicatrici, visibili e invisibili, sono la dimostrazione del fatto che avete incontrato e superato delle difficoltà. Rivelano la vostra storia, mostrano che siete “sopravvissuti” e vi infondono coraggio.».

Come quest’arte che offre agli oggetti una nuova e più preziosa esistenza diviene potente metafora di resilienza, così la poesia di Veruska Vertuani, e non soltanto nel testo in cui fa esplicito riferimento al Kintsugi, sposandone con convinzione lo spirito, affronta e supera le linee di frattura che hanno inciso l’esperienza dell’io poetico: vissute dolorosamente ma infine accolte e trasformate con gesto paziente dall’oro liquido sonoro e sanante della poesia.