Premio Bologna in Lettere 2023 – Carla Francesca Catanese – Nota critica di Maria Luisa Vezzali

Premio Bologna in Lettere 2023

Sezione C (Poesie singole inedite)

Nota critica su Carla Francesca Catanese

/exit-sense

 

 

Entro soli cinque anni – ci informa Esquire – potremmo uscire dal sistema solare con la tecnologia della propulsione a raggi pellet. Per uscire dall’attuale sistema economico-sociale (quello che Morante chiamava sarcasticamente la «Grande Opera») ci vorrà di sicuro di più. Carla Francesca Catanese, poeta e scienziata della comunicazione bolognese segnalata in quest’ultima edizione di Bologna in Lettere, ci propone una riflessione tripartita sul tema che da subito si pone all’insegna di un esperto meticciato linguistico. I tre titoli, infatti, presentano parole composte da un prefisso che significa “uscita” (rispettivamente in inglese, francese e spagnolo) e da una seconda parte che sforza il termine verso una plurivocità vorticosa: Exit-sense, uscita dal senso, dall’esistenza, o esistenza come uscita dal senso; Sortie-legi, varco tanto magico, quanto inquietante per la presenza di numerosi indizi di morte («Facciamo che ci amiamo / follemente / col laccio emostatico / al collo / /queste rovine/ / e i girasoli di bare scolpiti sulla terra […]»); Salid-ali, volo d’allontanamento dal «nostro dramma orizzontale / occidentale» in solidarietà con le altre specie della «Natura, Naturae», posto che si riesca a metamorfizzare ciò che in noi è pesante, calce e grumo, in uno stato della materia che sia «senza radici, // come le piante acquatiche». Veniamo infatti dopo l’epoca delle favole morali («Esopo») e del corpo-a-corpo con il principio d’autorità («Edipo») e al poeta non resta che compiere un’ascesa nietzschiana verso il livello coabitato dal polverio delle «stelle» e dalle manifestazioni del mondo vegetale («stelo») e animale («apodema»), finché tale salto lo «porti a lavorare / una vita» che magari gli sopravviva.

Sebbene la ricerca di Catanese esplori principalmente il livello del linguaggio, la critica alla condizione contemporanea emerge sia dai riferimenti all’Inferno dantesco («le Fiere») e a un’ossimorica possibilità d’approdo a qualche rito purgatoriale («l’infranto giunco / di un riposo»), sia dai brandelli di accenni all’attualità che residuano in ognuno dei tre momenti del testo forandolo con parentesi quadre o asserzioni tra slash: «[ci incroci volti giovanissimi / con addosso la maschera della vecchiaia]» «[Mariupol / con l’occhio sghembo   non ha radici / s’appanna]» «/considerarci immuni / sarebbe da sonnambuli/». Fiumi letterali e metaforici, intanto, tracimano senza più «letto / d’esistere» e le «bocche degli agnelli» nella loro violata mitezza infestano la nostra coscienza malata fino a tramutarsi lynchianamente nell’orrore di occhi che continuano a tormentarci.

In tutta la suite domina comunque un’eccedenza della scrittura che si giova di stratagemmi grafici per con-fondere la percezione del leggente, ma che in ultima istanza si gode come spartito di una performance orale in cui vengono disseminate e – abilmente dissimulate – tracce di una temporalità e di un’identità sovvertite. Per quanto riguarda la prima, il testo incomincia puntando il dito su un preciso «sabato» attraverso il paradosso di un deittico («questo») privo di riferimenti che non siano quelli della stagione «estiva», ma il momento sussume su di sé continuamente la sua negazione, diventando altro, imprendibile e indefinibile, come approdato a una «adolescenza» segnata da rughe, come incarnato in quegli «occhi» che in quanto «disossati» apparterrebbero ormai a un passato remoto e scorporato, mentre invece «vagano» nell’ora presente ponendosi accanto a «l’avvenire». Per quanto riguarda la seconda, spicca il modo in cui l’iniziale anonimia della forma impersonale «si dovrebbe» è contemporaneamente suffragata dalla prosecuzione di uno sguardo esterno che sorvola su «periferie» di metropoli e disconfermata dal disporsi cadenzato – con ritmo quasi da canzonetta pop, ma spezzata – di una serie epiforica pronominale («ma mi» / «ma tu» / «ma noi») che farebbe suppore un rituale soggetto di coppia. E a supportare ciò subentra non solo il «ci amiamo» già citato, ma anche alcuni segnali canonici della seduttività dell’altro («nei tuoi occhi / atolli ambrati al dunque adunchi»). L’ultimo movimento però trasporta il discorso verso un «tu» che, più che all’altro, pare rivolto dall’autrice a sé stessa, scrupolosa necrofora della tradizione letteraria («Deponi accuratamente le cuoia / nei solchi // la calce del sonetto»), centratamente «autocompulsiva», la cui pulsione però non si raccoglie in un’autonomia narcisistica, bensì è rivolta al nascondimento («ti riponi nella cuccia») e finalmente all’annientamento («t’accrocchi / un veleno freddo»). Di modo che alla fine ciò che resta di accurato, chirurgico, preciso è l’impero dell’«assenza». E le sue tracce sanguinanti. (Maria Luisa Vezzali)