Premio Bologna in Lettere 2018 – Note critiche – Daniele Poletti su Lampare di Gabriele Stera

 

Lampare
Trasmissioni dalla fine del mondo con una pietra al collo
o i buchi del poema  – Gabriele Stera

 

Un’ordinata progettazione del vuoto

 

 

C’è un vuoto, che è un buco, che è il poema primigenio, centrale, che si produce come concavo e da cui, per convessità e concrezione, si sviluppano testa e coda del poema. La “fine del mondo” è appunto la convergenza  verso un fuoco centrale che viene attraversato con un percorso circolare e concentrico (fino al trapasso nel vuoto) in una navigazione che parte come cosmogonica post-moderna avventura, per diventare procellosa nel gorgo del centro e infine per uscire in bonaccia in una sorniona, ma non per questo meno incisiva, riflessione meta-letteraria.

 

 

[…]

una poesia come si deve è invece un insieme

tecnico concreto perfettamente individualizzato

cioè non dice niente, non va da nessuna parte

al massimo funziona

(o i buchi del poema; 0.1.)

 

In una sorvegliata struttura, patentemente meditata e sensibilmente protratta nel tempo, tale che i rimandi lessicali e semantici che incontriamo in tutto il lavoro, appaiono come indubitabile cifra stilistico-simbolica dell’autore, Lampare si  dispiega agli occhi e all’intelletto del lettore come una perfetta macchina celibe-mitologica. Il godimento che se ne trae, a parte la nettezza lirica di alcuni passaggi, che risultano come l’eco di una lezione ben assorbita e resa personale, sta proprio nella perdita, almeno nell’immediato, delle coordinate. Uno spaesamento che lo stesso autore dichiara con consapevolezza luciferina in chiusura di poema, nell’Outro (parola non scelta a caso: certo con una forte connotazione musicale che rafforza il senso della struttura e la forma poematica, ma che giocosamente rimanda per via anagrammatica e fonetica a trou => buco, simbolo catalizzatore di tutto il lavoro):

 

ecco finalmente le dannatissime coordinate:

potete triangolare da qui le vostre posizioni

questo è il testo – questa la voce – questo l’oggetto

voi (se non vi siete persi) dovreste essere lì da qualche parte

 

Scrittura dell’erranza, per suggestione apparentata col palindromo della dannazione “In girum imus nocte et consumimur igni”, che fa il paio con la sospensione del giudizio: le aspettative di riconoscibilità vengono continuamente disattese, grazie non tanto a una presa di distanza da forme canoniche e sclerotizzate, quanto dalla naturale propensione di abbracciare ciò che la scrittura richiede nel momento del suo farsi. Lo stesso trattamento è riservato ai contenuti che fluiscono nel loro variegarsi di climi, senza prediligere una linea traumaticamente sperimentale, fiaccamente lirica o facilmente pamphlettistica e sarcastica, ma procedendo in bilico su quel crinale o meglio spartiacque (parlando di lampare) da cui si può osservare il passato da un lato, con la coda dell’occhio, nella consapevolezza che il presente, per non cedere all’albagia, deve essere ricostruito secondo modalità miste, rinnovate, spesso anche solo nel timbro (in senso musicale). Quello che fa Stera è creare un’epica della dissimulazione risemantizzando per via analogica e allegorica frantumi di vita, di politica, di cultura, di critica, che galleggiano sulla superficie del testo in attesa di essere recepiti, catturati e riconvertiti in un senso ulteriore: e qui sta la sospensione del giudizio che è richiesta al lettore, il suo lavoro attivo sul testo, “l’abboccare del luccio”, l’andare verso la luce della “lamapara”, una luce che brucia (come brucia per le falene che intorno alle lanterne finisco per uccidersi; che di luce ci ripete: /che di luce/ si brucia, Questo e quanto, II.), significa accettare di perdersi in un viaggio mitico per mare che porterà alla verità del vuoto, del nulla, del funzionante niente. In questo spazio ardito e terribile, del quale l’incipit rappresenta un deterrente:

 

 

Noel delirium c’eri lady lei (c’eri) levitico primo eri. addentro

eterno tremens (dici) a lei chemistra menade – che disastro!

irto delirium ch’eri campo di guerra fiorita / ripidissima finora

: vita : e più tardi certamente ancora peggio: che disastro!

 

quei frantumi, cui accennavo sopra, prendono la forma sonora di un’eco lontano, di qualcosa che fu e che oggi, per dare senso all’incomprensibile, viene sottoposto a un trattamento di interpolazione all’interno di una quasi pretestuosa narranza di guerra e amore.  In questi affioramenti si riconoscono tra le altre cose un riferimento a Jonathan Harvey e alla sua composizione “Mortuos Plango, Vivos Voco” (1980), prontamente e ironicamente rovesciato in “mortuos voco e vivi plango”; perché no? nella stessa apertura di poema (supra) “c’eri lady lei (c’eri) levitico primo eri” sembrano filtrati foneticamente per osmosi inversa i Modern Talking di “Cheri cheri lady”; in “Shell” appare un errore o un depistaggio che evoca la strage di Falcone e Borsellino: “lì dove la valanga volle urtare il 9 maggio mille novecento tre” (in realtà 1993); in “Di come abbiamo cambiato mestiere”, un possibile riferimento a Mussolini e al fascismo: “la bocca aperta sopra al mondo       forse ci stavamo baciando! / e spingere le frasi dal balcone        con i denti sporti e tesi / una mano verso il cielo e l’altra sopra gli occhi a coprire l’utopia”; in “con una pietra al collo”, viene evocato il regista danese C.T. Dreyer, il mito della mosca sul viso dell’attrice Renée Falconetti, reinventato da Stera con un procedimento di trasferimento nella materia narrata del pezzo: “è quasi invisibile ora la mosca sul quadro, eppure / si vede di dietro si vede il muro bucato l’intonaco”; e probabilmente anche Raggiunsero il traghetto (De nåede färgen), nei versi: “proietta sui visi la pace stasera    un regista danese / le rive respingono a mare sequenza d’amore tramonto / assenza”. In tal caso, se veramente Stera pensava a questo filmato, esso diventa  vero e proprio nucleo metaforico e meta-letterario di tutto il poema, in quanto, nel cortometraggio di Dreyer,  i due innamorati in motocicletta non raggiungono mai il traghetto perché muoiono in un incidente, dunque si rafforza, se possibile, la sensazione di  non poter pervenire a una verità definitiva e consolatoria, come la comprensione incondizionata richiede. Vengono poi nominati apertamente Stirner, Esenin, Bowie, Bakunin, Bono e con loro altre diffrazioni, “eventi della luce” che contribuiscono allo spostamento della prospettiva in una continua negazione della citazione o della rifunzionalizzazione del prelievo fini a se stessi, nel tentativo di creare una cripto-archeologia della storia e della società che acquisti prospettive rinnovate e quasi memetiche, laddove la contraffazione si pone non come gioco svagato, ma come presa di coscienza, appunto, di un’assenza di verità.

La lampara è un tipo di lampada montata su di una barca, usata dai pescatori di notte per illuminare la superficie dell’acqua, al fine di attrarre i pesci in superficie per poi intrappolarli nella rete. La situazione suggerita dunque è notturna,  con più punti di illuminazione (lampara è proposto al plurale) che forano la superficie acquea per creare i primi passaggi di “trasmissione dalla fine del mondo”;  sembra esserci proprio una transizione dimensionale, un viaggio ultramondano (“adesso si può dire: non ci sono impedimenti all’oltremondo” , Trasmissioni) in cui l’ossessione per la luce diventa abbaglio, bruciatura, più che limpida chiarificazione del senso. In quei buchi di luce sulla superficie instabile e mutevole dell’acqua dovrebbero concentrarsi i branchi di pesce, poi il lancio delle reti e il “trapasso”: lasciarsi catturare e accettare la crisi. (Daniele Poletti)