Premio Bologna in Lettere 2018 – Note critiche – Giusi Montali su Non di fortuna di Davide Castiglione

Davide Castiglione Non di fortuna (Italic) 

 

È un io quello che si muove nella raccolta di Davide Castiglione in costante viaggio tra presente e passato, tra luoghi d’origine e nazione elettiva (o forse sarebbe meglio dire subita), un soggetto che è privo di stabilità, ed è attraversato da un moto incessante che non sembra portare ad alcuna meta e tanto meno soddisfazione. Ne deriva un’incapacità di aderire a un tempo e a un luogo, dal momento che l’io esperisce la realtà come una serie di lacerti non integrati tra loro. L’unica comprensione di sé (e conseguente accettazione) alla quale assistiamo si verifica nell’ultimo testo e si connota per la sua violenza e fugacità, e pertanto non è destinata a dimorare nell’individuo. È piuttosto una rivelazione fulminea e strettamente legata alle contingenze (“[…] ma sono attimi in cui si tenta di ricostruirsi | a ritroso, finché un’intensità nell’accettarsi ci assale e | basta, una pace forte dove le nostre idiosincrasie sono | preziose, e scintillano appena prima del rientro a casa.”). Nel resto della raccolta invece l’instabilità spaziale e l’emersione dei ricordi sottopongono l’io a una perturbazione temporale e spaziale che ne acuiscono l’inquietudine e la vulnerabilità, che non sono solo sue ma sono largamente condivise dalla sua stessa generazione (“mi sono visto vulnerabile | da vicino, mi sono | avviato | sentendo che il tacere, il tuo tacere, sentendo”), alla quale è stata negata la conoscenza ([…] la conoscenza delle persone, | la conoscenza del tutto, cosa è più distante”), subendo così il disordine irradiato da una realtà sfuggente (“[…] Mentre | l’entropia sgretola a partire da quella vernice”). In effetti l’io sommessamente in scena si rappresenta come un paradigma di giovane uomo del XXI secolo – basti notare l’uso della prima persona plurale che appare in alcuni testi e rimanda a una coralità, o perlomeno a una comunanza di destini individuali – e come tale caratterizzato da un’instabilità spaziale, che è anche incertezza della propria possibilità di scelta. L’impressione è che altri oppure le circostanze abbiano scelto per lui, e l’io non abbia potuto fare altro che adattarsi (“Devo a un lunapark congelato | qualche gettone d’antecrisi | quando era la vacanza non io a condurmi”; “[…] ci pareva | di coprire distanze invece | non più che la tratta fra ipocrisia e precipizio | e in mano un po’ di nastro isolante”). Questo scacco del libero arbitrio è esemplificato dalla fitta trama di negazioni che percorre tutta la raccolta a cominciare dal titolo, Non di fortuna, e che è il riflesso di un’impossibilità di stabilirsi in un centro interiore e in una dimora fisica, oltre che nel tempo presente dal momento che esso subisce le continue interferenze del passato, più o meno prossimo, e di un futuro che quando appare si connota come una minaccia. Dopo aver preso atto dell’impossibilità di dirigere la propria esistenza, il soggetto, forse per compensazione, enfatizza le sue capacità di osservatore, analizzando e annotando la realtà che lo circonda e alla quale sovrappone pensieri e ricordi di altri luoghi, tempi e persone, così come alla descrizione di azioni presenti aggiunge l’evocazione di quelle passate, creando un coacervo che mima il pensiero interiore. Mimesi che è resa anche grazie alla sintassi che perde di logica aristotelica per aprirsi alla bi-logica del pensiero simmetrico (per dirla con Matte Blanco), ovvero all’inconscio. Non si deve però cadere nella convinzione che questi testi siano ripiegati su se stessi e scandaglino le nevrosi e l’inconscio del soggetto, anzi. In primis perché il soggetto rappresentato è un’unità individuale che replica caratteristiche comuni a una generazione e in tale senso è esemplificativo, mutatis mutandis, di una collettività. In secundis perché siamo piuttosto di fronte a una continua sovrapposizione tra una realtà mentale che si esteriorizza e una realtà esterna che si interiorizza: i luoghi fisici attraversati e osservati dal soggetto si sovrappongono ai ricordi e ai pensieri e restituiscono al tempo stesso un’immagine obiettiva e soggettiva. Ne risulta una geografia della contemporaneità nella quale l’individuo si percepisce isolato, privo di una comunità di appartenenza, e indotto ad attraversare province e nonluoghi in un moto incessante privo di centro  e di meta. Così come il viaggio interiore nei propri ricordi non perviene a nessuna risoluzione e tanto meno ad alcuna epifania. Questa “scollatura” del soggetto rispetto alla società, allo spazio e al tempo trova un correlativo oggettivo nell’immagine dell’ape morta: l’eusocialità non è possibile per gli uomini che ne sono anzi i primi nemici, ed è sostituita da una società che riunisce individui privati e privi di finalità. “Sul battiscopa la sua mite industria  / le rimane aliena. Parlo di cose più grandi  /   di noi, di un’ape che si arrampica,      /      malamente – il suono lontano, al telefono, e quella pena   /   in salita, che non potrà salvarsi     /     dai ricami sull’esistenza e i merletti accaniti    /   si stacca; è un corpo / per terra; tòrto; terminale.  /    Capiterà di pestarlo; passare      /      l’aspirapolvere la spugna e via.[…]”  (Giusi Montali)