Bologna in Lettere 2019 – Appunti, letture, note – Alejandra Craules Bretón / Eva Laudace

È una voce in difficoltà la protagonista dei testi che ci leggerà oggi Alejandra Craules Bretón. Una voce in discesa ripida, segnata da un fraseggiare veloce ed interrotto da un’anticipata chiusa del verso sì che anche a leggerlo solo con la mente si va in affanno:

 

“Le orbite dei miei neuroni

collassano svelando l’ansia

L’ansia che inizia

nel collo nudo del giorno

scanala

e risale

lungo la schiena lattea”

 

Un’ansia neppure nascosta o celata, ma dichiarata all’incontro con l’altro, sia esso il lettore o un’alterità indefinita: Dio forse o un’entità terrena cui donare baci e ventre.

 

Ma è anche un inseguimento quello che l’autrice ci racconta in questi suoi testi, un inseguimento verso quel TU indefinito verso cui tutto tende: il suo corpo, le sue parole, i suoi pensieri. È un impossibile incontrarsi, uno sfuggirsi senza speranza alcuna perché appartenenti a specie diverse, a mondi diversi :

 

“Spaventata mi dispero

perché il cielo ci separa:

viviamo

eclissi diverse”

 

Ma è questa appartenenza a realtà inconiugabili ciò che ci porta all’altro e nella differenza giace la tensione che unisce:

 

“Non so e non voglio spiegare

perché ci troviamo

quando io sono aurora

e tu alba”

 

E allora non c’è strada percorribile tra l’io narrante e l’amato, sia esso un uomo o un istinto o una salvezza necessaria, c’è solo la possibilità di vedersi, di riconoscersi e di restare insieme in un abbraccio universale…

 

“Improvvisamente

il cosmo è circondato

dalle tue braccia

il tuo colore violento spazientisce”

 

Cosa resta di tutto ciò? Resta questa nostra capacità di raccontarci, ci si può ritrovare allora attraverso parole scelte ad istinto, senza raziocinio, in quelle parole, quelle che la strada ci impone come sassi. (Alessandro Brusa)

 

 

 

Roland Barthes diceva che la lingua è al di qua della Letteratura mentre lo Stile è quasi al di là: che le immagini, il lessico, il fraseggiare di uno scrittore nascono dal suo corpo e dal suo passato, che lo stile è un linguaggio autarchico. Diceva che i suoi riferimenti sono tali a livello di una biologia, a livello di un passato: che sono  la “cosa” dello scrittore, il suo splendore e la sua prigione… la sua solitudine.

 

Queste parole sono irrinunciabili nell’affrontare qualunque autore, ma nel caso di Eva Laudace diventano non solo struttura sulla quale comporre una lettura, ma diventano quasi profezia.

L’eleganza umana e femminile di Eva è il sangue del suo stile, la forma del suo fraseggiare ed il respiro del suo versificare.

 

E così Sua altezza di baci, ultimo figlio editoriale di Eva (figlio non è una parola usata a caso)  porta con sé la descrizione di un mondo dentro il quale l’autrice non vuole farci entrare, ma  che ci descrive come un reportage da una terra straniera, e così la paura del contatto e della realtà ci vengono tenute “altre” con la distanza della metafora.

 

Anche il sentire ed il sentimento sembrano tenuti a debita e controllata distanza, quasi temuti: sono la parola e il linguaggio il solo legame tra il mondo esterno e quello interno, il solo strumento di passaggio e di indagine nelle due  direzioni possibilmente percorribili.

 

E proprio perché mezzo di sfondamento e di emersione il linguaggio diventa lo strumento con il quale Eva dichiara all’universo la propria presenza in un luogo dove l’eleganza si fa violenza necessaria: un avvelenato e mortale filo di Arianna. Del resto come l’autrice stessa ci dice: “Il male è un ospite che non avvisa.” (Alessandro Brusa)