Premio Bologna in Lettere 2019 – Le note critiche – Vito Bonito / Enzo Campi

Vito Bonito, fabularasa, Oèdipus, 2018

Finalista Sezione A – Opere edite

 

 

In un mondo dove non c’è giustezza ma solo approssimazione, Bonito sostituisce l’utopia della giustezza con la sottrazione e con il rimpicciolimento. Siamo dinanzi a una scrittura prosciugata, priva di orpelli e dove anche le coloriture figurative e simboliste gettate in pasto al fruitore attraverso l’uso costante e implacabile dei diminutivi – il cui scopo è quello di ingentilire la crudeltà di fondo che abbraccia, guida e significa tutta la sua produzione – dove anche le coloriture dicevo, risultano minimizzate.

In questa minimizzazione che avanza inesorabilmente c’è una morte oltre la morte che potrebbe anche corrispondere alla nascita. Difatti, venendo in vita, si mette a morte il pre-natale, lo stato anteriore, per così dire pacificato e amniotico. In tale ottica venire alla vita significa prima morire e poi rinascere (Bonito direbbe” per meglio morire in vita” oppure, e più significativamente, “nascere alla morte”). Ma in questa rinascita o, se preferite, in questo morire, bisogna recuperare il pre-natale, la vita prima della vita. Bonito sa che non bisogna attribuire un nome proprio, perché tale pratica corrisponde a conferire una morte ulteriore, o comunque a certificare un’estromissione. Attribuire un nome proprio significa estromettere il neo-nato  dall’anonimato della sua condizione amniotica e, se vogliamo, pacificata. Il nome proprio è il particolare che distingue e insieme confonde, il senza-nome invece è l’universale che può solo confondere.  La bambina bianca non è un nome particolare ma un nome universale perché attribuisce al soggetto una qualità da non sottovalutare, ovvero quella di un oggetto sensibile il cui compito è quello di dettare – anche in maniera inarticolata o disarticolata – le regole del gioco. Ma anche il gioco – così come tutti i movimenti che caratterizzano l’opera –  è doppio. Per Bonito non basta giocare il gioco, bisogna difatti farsi giocare dal gioco. Ecco quindi che crudeltà e ironia si inseguono a vicenda nelle strutture tensive che l’autore mette al lavoro nell’opera.

La parola d’ordine è pèue (“Péue è il senhal della bambina bianca. Il suo nome-suono prenatale, pregrammaticale, prima di ogni lettera e del suo vagito”), “pèue al massacro” ci dice testualmente Bonito, ma poi aggiunge: “mio gioco”. Doppia linea di trasmissione dei dati sensibili, da un lato vagito inarticolato, parola che si fa suono, ricordo inconscio dell’amnio e dall’altro lato il gioco che viaggia consapevolmente tra il melodramma, la fabula scanzonata e la crudeltà di fondo che tutto avvolge e tonifica.

I termini-oggetto che Bonito assume come campionamenti  della sua intera poetica sono tutti concreti e reali ma rinviano ad un effetto semantico pluristrutturato che prolunga la realtà verso una crudeltà idealizzata da cui tutto parte e a cui tutto ritorna. E non solo: tutti i termini-oggetto di Bonito sono simulacri. La ripetizione ossessiva li trasforma in tracce quasi fantasmatiche. Ma comunque conservano un peso originario. Per questo, forse, bisogna liberarsene. Come avviene questo? Attraverso la leggerezza dell’esposizione. Una leggerezza che si attua nel prosciugamento e nella spazializzazione.

Se Bonito afferma: “E allora perché non essere già morti prima della nascita di una figlia?” risulterà agevole per noi lettori riconoscere che ancora una volta non ci si giochi attraverso un nome proprio: la bambina bianca diventa figlia (ma in realtà lo era da sempre). Si rende quindi simulacro di se stessa per meglio favorire la sparizione del suo stesso padre. Ed è così che il doppio movimento di cui si accennava si concretizza nell’uso di una doppia voce, quella della figlia non ancora nata e del padre già morto, quella della figlia che sbeffeggia il padre e quella del padre che ripropone il suo stato di cadavere in vita, tanto paradossale quanto realista e necessario, realista di una realtà che eccede la realtà nella sua essenza, e necessaria di una necessarietà che cerca la sua funzionalità nella ri-qualificazione dell’idea di un cordone ombelicale che continua a legare e collegare il generante morente e il non ancora generato ma già vivo per tutta la durata dell’opera. Ma – come i più attenti tra i lettori di Bonito dovrebbero aver già compreso – ogni suo libro non funziona di per sé in maniera univoca ma solo nel ritorno ai libri precedenti e nel proseguimento verso i libri successivi. Sicché non sarà azzardato definire la scrittura di Bonito come una sola, lunga, infinita opera scandita attraverso vari libri.

 

“La figlia dà scaccomatto al padre.
Così la poesia dà sempre scaccomatto al poeta.”

 

(Enzo Campi)