Premio Bologna in Lettere 2020 – Nota critica di Sonia Caporossi a Stefania Di Lino

Stefania Di Lino, La parola detta (La vita Felice)

Sezione A – Opere edite – Terza classificata ex aequo

 

 

Le parole dette di/da Stefania di Lino e i punti di sutura della ferita universale

 

avremo ancora sguardi / da donare al mondo / e gesti protesi all’amore

 

È un supremo atto di speranza che passa-attraverso il dolore quello che Stefania Di Lino in “La parola detta” ci comunica tra le maglie di una parola che assurge a valore comunicativo supremo nel momento stesso in cui viene pronunciata, “detta” appunto, nel passaggio diastratico tra il suono, la phoné, e il messaggio sotteso al significante. Un significante, del resto, sapientemente dosato nelle pagine della sua silloge, se è vero che nulla è lasciato al caso, dalle parentesi che intervallano i versi senza l’espediente di andare a capo, quasi a indicare la necessità di una fluenza ininterrotta ad infinitum nella propria trasmissione; fino alla considerazione del connettivo coordinante in asindeto per eccellenza, la virgola, posta alla fine di ogni componimento quasi a sottolineare come il senso delle cose, nella trasfigurazione analogica tra i contenuti di possibilità del messaggio all’ethos dell’interprete, siano lasciati così, in sospeso, traballanti sul baratro sconfinato della necessità di darsi un senso varcando il limite della punteggiatura. Così, la chiusura asfittica della versificazione normata viene oltrepassata per de-cadere verso l’entropia del linguaggio. Questa entropia però, si diceva, non consiste in una mera dispersione di intenti e di energie, è bensì un attraversamento coraggioso del male, quel male (del vivere, del sentire, dell’accadere) che ci circonda ogni dove e di da cui nessuno di noi può considerarsi esente. È un percorso esperienziale, allora, quello che Stefania Di Lino mette in campo, a cominciare dalle figure familiari più vicine che assurgono a operatore logico-esistenziale attraverso cui dipanare la propria visione personale della realtà come in una sorta di rispecchiamento o evocazione:

 

mia madre ora è una donna cava / con le sue ossa cave / su zampette da uccellino,

 

Nella descrizione cruda ed esangue della madre risiede un archetipo esistenziale che permette al circolo interpretans-interpretandum di compiere il suo giro completo di emissione e ricezione del messaggio a tutti i lettori attuali e possibili: ognuno si riconosce in quella figlia, in quella madre; ognuno fa la sua parte nella generazione del senso complessivo. Questa, come si sa, è la virtù della vera poesia, una poesia che, in Di Lino, è sempre fortemente mescolata agli umori terrestri della materialità:

 

si aprano al cielo e al vento / le parole sollevate dal fango / commistione impura della terra / che talvolta radici vanno recise / talvolta / e lasciate a marcire nel buio cavo di un rancore

 

Le parole originano dalla terra e alla terra ritornano, in un rimescolarsi incessante di impurezza che evoca i colori, gli odori e i sapori dello strappo, della lacerazione, della de-formazione che genera la vita (come nella figuralità del parto evocata altrove) e introduce giocoforza l’individuo appena individuatosi nella realtà:

 

ed è colore rosso – / lo spurgo cristallino di un rancore / l’affondo fatto carne // ci sarà un tempo migliore da espugnare / sarà cura, allora / sarà grazia,

 

Le parole sono quindi composte di carne e sangue, di materia naturale e naturata, si reggono da sole sulle proprie gambe, dopo essere cadute ed essersi rialzate infinite volte. A ogni caduta, certo, si apre una ferita col suo spurgo cristallino, un taglio concrezionale che devia dal percorso originario di purezza pensato, che in realtà aveva bisogno proprio di quella occorrenza dolorosa, di quello screzio, di quella crepa, di quella frattura e di quella caduta per potersi dire esperienziale. Allora,

 

se le parole fossero surrogato / medicamento elaborato / di ferite leccate lenite / – come fa un cane con le sue ferite – / se scrivere fosse sempre prelevare / cellule dal nerbo osseo centrale / lembi sanguinolenti / dalla propria spina dorsale / i versi sarebbero salvezza, unguento / diventerebbero certezza, medicamento,

 

Stefania Di Lino usa qui molto opportunamente il periodo ipotetico, perché le parole non sono quasi mai medicamento, e a ben vedere non possono esserlo (la vita non è così facile): le parole dette esprimono una compiutezza solo apparente, sono un continuo rimando all’altro-da-sé, un indefesso passaggio a filo dei punti di sutura, da quello precedente a quello successivo, che tentano soltanto di richiudere una ferita, lo spacco sofferente e inferno che separa lo spazio-mondo dall’io, ma non ci riescono mai del tutto. È, infatti, una ferita per la quale se non volessimo ritenerci Angeli di perfezione, distaccati nella nostra atarassia immota, non dovremmo mai individuare il punto definitivo di sutura: solo in questo modo, infatti, concedendoci l’apertura di uno spurgo dall’immondizia fisiologica dell’io, potremmo continuare a dirci, ad ogni risveglio del mattino, umani. Per questo, si diceva all’inizio, la poesia di Stefania Di Lino è un supremo atto di speranza: la consapevolezza della nostra umanità non ci consente sconti idealizzanti; siamo già quello che siamo sempre al meglio di ciò che possiamo, che non è mai il meglio di ciò che leibnizianamente si potrebbe. (Sonia Caporossi)