Daniele Barbieri – Lo straniamento felice de “La manutenzione dei corpi” di Francesca Scialanga

Premio Bologna in Lettere 2021

Daniele Barbieri – Lo straniamento felice de La manutenzione dei corpi di Francesca Scialanga

 

Quando si produce un racconto su grandi temi come la morte e la nascita, c’è sempre un grave pericolo in agguato: la retorica dell’inevitabilmente drammatico. Per questo è interessante cercare di capire come il libro di Francesca Scialanga, La manutenzione del corpo, pur essendo esattamente una narrazione (per quanto diffratta e in poesia) sui temi estremi, riesca a evitare il pericolo nascosto, consegnandoci felicemente quelle stesse estremità, e mantenendo sostanzialmente intatta la loro feroce, elementare, carica epica.

All’inizio del racconto c’è l’agonia della nonna, dove l’omonimia con l’autrice permette un’imprevista immedesimazione, un vedere e sentire da dentro. Alla fine c’è la nascita di Orlando, dopo che passo dopo passo, centimetro per centimetro, lo si è sentito crescere di dentro. In mezzo, frammenti di vita, attaccati al passato e già gravidi di futuro: di nuovo un fuori che prende senso da, e dà a sua volta senso a, un dentro.

Perché qui tutto è dettaglio corporeo (e quindi un fuori) che immediatamente, gravemente, rimanda a un dentro. Le ossa, i capelli, la gola, il buco (quale buco?), la pelle, il sangue, i globuli rossi (“perché fuori il sangue è male e dentro è vita”). Poi, “il corpo di Francesca diventa parete, e corteccia spellata”, “un’esplosione di sostanza”: prima che correlativi oggettivi, le cose qui appaiono cose, materia corporea o materia del mondo.

E poi, di colpo, “nel sangue microscopici duende con le scarpe a punta spingono”, e il dettaglio fantastico-sarcastico spiazza tutto, fornendoci un indizio cruciale. Non basta, infatti, appellarsi alle cose per evitare la retorica: quando diventa teatro poetico, anche la quotidianità non è né più né meno retorica della tragedia. È piuttosto che in questo libro le cose appaiono, per così dire, in maniera sbagliata, anzi, direi, nella giusta maniera sbagliata per continuare ad avere senso, lì dove si trovano, a dispetto della loro imprevedibilità o implausibilità in quel luogo testuale. Una tattica, insomma, di straniamento.

Di nuovo, lo straniamento pure corre i suoi rischi. L’accostamento volutamente sbagliato sorprende, certo, ma può anche sapere di posticcio, di artificioso, cadendo così in una nuova retorica, quella del sorprendente, del notevole a tutti i costi. Non è quello che accade qui, dove gli accostamenti, per quanto imprevedibili, trovano immediatamente senso, e mi costringono a tornare a vedere, a tornare a sentire: qui lo straniamento funziona, insomma, spesso appassiona.

Si potrebbero percorrere tutti i singoli componimenti, alla ricerca di queste sfasature, di queste vedute imprevedibili su cose prevedibili. Perché, se vogliamo, la storia della morte e della nascita sarebbe anche, in sé, una storia banale: accade a tutti, è stata raccontata mille volte, la conosciamo perfettamente. Il libro di Francesca Scialanga ci permette di leggerla di nuovo, di trovarla nuova, di tornare a vedere le emozioni che essa contiene: è come se il linguaggio di questa poesia avesse sciolto la patina di banalità che ricopre di solito il racconto della vita, restituendocene la vividezza dei colori, restituendoci le sensazioni.