Sandro Pecchiari – Desunt Nonnulla – piccole omissioni – Nota critica di Sonia Caporossi

Premio Bologna in Lettere 2021

Sandro PecchiariDesunt Nonnulla – piccole omissioni – Nota critica di Sonia Caporossi

 

Con Desunt Nonnulla, Sandro Pecchiari redige un diario monadico della Malattia, trasfigurata nella simbologia di un dolore personale che diviene archetipico e universalmente comunicabile. Si tratta, evidentemente, di un dolore in cui percezione del male che il poeta mette in versi conduce alla dispersione delle certezze e, contestualmente, permette il recupero delle profondità abissali insite nel nesso inscindibile tra io e mondo, tra realtà e idealità. Tale ricomposizione psichica si compie in questa raccolta attraverso il sonar privilegiato di una parola poetica depurata da qualsiasi edulcorazione coatta, da qualsiasi abbellimento non necessario, per approfondire un discorso interiore sulla psicocarnalità del corpo passando attraverso la riflessione, mai stucchevolmente logografica, circa la manipolazione coercisa del corpo stesso, operata precipuamente dall’intervento del chirurgo, il medico ex machina che assume il ruolo dell’altro-da-sé; riflessione altresì dettata dal taglio irrevocabile e catartico del bisturi. In questa prospettiva decisiva e recisiva è proprio l’azione-agito del bisturi ad essere insieme dannazione e cura, intervento e sospensione nel dubbio della sanità, ipostasi della salvezza e trascendimento anti-irenico, ma non per questo meno giovevole, del male e della morte.

È infatti la meditazione intorno alla morte il vero argomento di questa raccolta, morte come minaccia incombente, come pensiero sotteso e perpetuamente scartato dalla dimensione conscia, come travaglio metastatico della carne che mostra, a ferita scoperta, il suo marciume, attraverso un itinerarium mentis ad corpus che passa anche attraverso lo sguardo dello specialista, sinestesicamente uno sguardo-silenzio che riconduce all’asportazione, insieme al pezzo di carne da epurare, anche, nel punto-momento, del senso stesso dell’esistenza (“il tuo sguardo all’indietro senza suono / mentre mi sfili come un guanto il corpo / inclina il taglio delle cose /ne asseconda il silenzio”).

In questo senso, “la geomanzia delle cicatrici” è la mappatura psichica di una scarificazione che rivela e disvela il turgido massacro del corpo, la battaglia di cui gli altri non sanno e non possono sapere nulla, che si pone tuttavia come necessario per trapassare in guarigione. La topografia del dolore si fa qui manifestamente unico strumento per poter “superare ferite fatte pietra”, che travalicano il confine asfittico della malattia contingente per assurgere a symbolon di un cancro metamaterico, di sostanza pulsionale, che vive al di sotto della mera “epidermia delle parole”, tuttavia da “ascoltare con cura”, affinché finalmente non venga davvero a mancare nulla fuori dalla circoscrizione semantica che definisce il valore intrinseco della vita, messa alla prova dalla sua stessa natura effimera e contingente, dalla condizione leopardianamente mortale di una res extensa che tenta un estremo contatto con la propria res cogitans, quasi in una sorta di nostos, di ritorno nostalgico all’unità, alla fusione, all’armonia precedente alla catastrofe.

La crisi che deriva dalla percezione di questa separazione, il discidium che genera il dolore è allora rimandato sempre avanti e oltre, nella riottenuta consapevolezza che, se qualcosa manca per definire l’equilibrio delle parti, in realtà non manca niente, al poeta in quanto tale, per poterne dire e, dicendone, riaccogliere l’esistenza all’interno dell’abbraccio salvifico del circolo interpretans-interpretandum, attraverso cui darsi pace, cura, direzione.