Premio Bologna in Lettere – La nota critica di Giusi Drago su “Dialoghi della sedia. Azioni a più voci” di Chiara Serani

Chiara Serani

 

DIALOGHI DELLA SEDIA

Azioni a più voci

 

In un gioco di variazioni minuziosamente descritte, Chiara Serani costruisce nei suoi Dialoghi della sedia un immaginario teatrale e performativo, ma in absentia: la performance non c’è, e quel che leggiamo è uno scritto che immagina una performance e la mima.  La scrittura tende infatti a essere mimetica dell’azione, in modo da realizzare una sorta di iperteatro  ultraconcentrato, o di scena moltiplicata da una serie di specchi: una donna (nuda o seminuda o vestita) si trova condannata a sedere su una sedia. L’estrema concentrazione dipende anche dal fatto che qui, sulla pagina, le azioni performative sono compiute quasi tutte da una stessa protagonista e vengono lette di seguito, mentre se fossero eseguite necessiterebbero o di una coralità di attori o di una pluralità di tempi. A ciò si aggiunga che ciascuna azione è narrata in prima persona e accade in un presente ideale – talvolta si allude a un tempo non ben determinato (per esempio quello occorrente a “mietere” e sfilare settantasette gonne: “Le ho contate progressivamente a voce alta le gonne, erano settantasette più una”), ma si tratta di una durata non rilevante per la scrittura, lo sarebbe invece nella messa in scena. Questo contribuisce ad accentuare la contiguità spaziotemporale: ciò che accade è qualcosa che si verifica davanti ai nostri occhi.

La fissità della sedia e la fissità della protagonista, che si presenta come oggetto più che come soggetto della performance (sembra lei stessa un’appendice della sedia), creano effetti di violenza espressionista alla Hermann Nitsch o “introvertita” alla Marina Abramovic. Quest’ultima è una delle voci a cui allude il sottotitolo – Azioni a più voci – che a prima vista pare in contrasto con la vocazione monologica della protagonista. I riferimenti letterari e le citazioni, che spaziano dalle Metamorfosi di Ovidio alla Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, da Alejandro Jodorowsky e Nick Land ad Alfreda Benge e Robert Wyatt, offrono l’ossatura concettuale ai rituali sadomasochistici e ossessivi che si svolgono sulla sedia.  Chiara Serani cerca di indurre reazioni forti analoghe a quelle che si avrebbero se davvero la donna della sedia fosse in azione: l’uso della prima persona è infatti il corrispettivo letterario dell’empatia che proverebbe chi assistesse davvero alla performance. La scrittura vuole produrre un senso di disagio, o un’estasi orribile, perché vengono descritte sevizie imposte o autoimposte, che nella loro opacità e violenza sono paradigmatiche di una costitutiva mancanza di nessi con ciò che le precede o le segue. Da questo punto di vista il disagio e l’estasi non vanno oltre, sono senza riscatto, come se questa condizione fosse simbolica di una condizione più generale.   Nell’impossibilità di sapere chi sia la donna sulla sedia che abbiamo di fronte, perché utilizzi e manipoli oggetti, perché abbia con loro non meri rapporti utilitaristici ma rapporti estetico-teoretici o psichiatrici, non possiamo che lasciarci invadere da un senso di passività: diventiamo pure noi simili a quella sedia, celebrata a fine libro in un Canto notturno della seggiola errante in tutte le sue funzioni e disfunzioni.

(Giusi Drago)