Premio Bologna in Lettere – La nota critica di Sonia Caporossi su I morti di tutte le specie di Silvia Secco

Silvia Secco, I morti di tutte le specie e lo stupore insito nell’atrocità

 

 

In undici scene facilmente trasferibili nei termini di un monologo teatrale, Silvia Secco compie una parabola meditativa sulla Catastrofe, parabola che trova il suo compimento nella forma del recitativo, del quale emerge in particolare il superamento tecnico della misura normalizzata, la devianza rispetto alla struttura conchiusa, l’ipertrofia di un discorso che dismette le modalità dell’argomentazione razionale e si lascia andare all’esplorazione di un sentire comune di fronte a una tragedia storica che diviene cosmica attraverso una poesia riversata sulla pagina in sequenze miste descrittivo-riflessive senz’ulteriore determinazione che la comunicazione assoluta.

In questo senso, l’ipermetrismo versificatorio che l’autrice sceglie per questi suoi recitat appare come estremamente consapevole e ben lavorato: risulta infatti emergere da una lucida volontà di fluenza del dettato interiore, dallo smottamento poetico di un sentimento di partecipazione che si rende compiutamente identificatorio, mimetico nel senso più pieno del termine. E la mimesi del dramma abbraccia caldamente anche e soprattutto l’elemento naturale, si trasfigura quasi panicamente in esso: Silvia Secco trasfigura le anime dei morti della strage del Vajont e Lugarese (di tutte le morti e di tutti i morti, umani, animali e vegetali in genere) come in un conglomerarsi di sostanza materiale e spirituale: la poetessa vive l’eventum tragico come un momento puntuale di sospensione della Storia all’interno di una costernata cristallizzazione del dolore preceduto dall’infrangimento catastrofico dell’estasi, vede l’accaduto come una violazione della bellezza armoniosa e immota della natura, dagli alberi, al fiume, alle case perfettamente incorniciate nell’ambiente, al bioma nel consesso, alle cime che circondano il teatro di dolore del Luogo in questione, agli esseri umani.

Il Luogo, quindi, sembra vivere di vita propria, e nell’estrema sospensione del momento, quando il Male riversa il proprio crudele determinismo sulla natura circostante nella sua cieca potenza di annientamento, lo stesso Luogo, archetipicamente identificato come tale, muore di una morte comune, cooperante, indivisa e collettiva. Dalla singola foglia dell’albero alla goccia del fiume, dall’insetto insignificante alla casa divelta dalle fondamenta, all’Uomo, tutto viene facilmente immaginato dal lettore come coinvolto, trascinato, rovesciato come un guanto. Nel passaggio evenemenziale dall’Eden originario al fango e ai detriti, l’immane potenza del sublime dinamico prende il sopravvento, il fondamento si capovolge verso il cielo, tutto si sovverte e si trasforma in pensiero materico, in materia pensante, laddove l’errore umano, il perseverare del diavolo, la trascuratezza, la negligenza e l’indecisione trovano negli esseri di tutte le specie la loro espiazione, la loro catartica e immorale condensazione dell’atrocità. L’armonia è sovvertita, nulla più sarà come prima: persino l’amore, di cui il Luogo risuonava e viveva eternamente nel fluire dell’attimo, trova nell’eventum la risoluzione coatta della krisis.

La poesia di Silvia Secco, abituata alla descrizione in termini poetici del miracolo e del thaumazein, si esplica attraverso la precipua capacità di quest’autrice dalla parola gentile di provare e trovare nelle minime cose il segreto salvifico della meraviglia. In questo libro, la meraviglia in quanto tale si fenomenologizza e si indirizza verso la consapevolezza della caducità della vita, nella riflessione esistenziale che conosce l’esito finale di ogni miracolo: quello di durare nell’eterno soltanto nel cuore degli uomini, come i morti di tutte le specie, del resto, sempre fanno.

(Sonia Caporossi)