Premio Bologna in Lettere 2023 – Marilena Cataldini – Nota critica di Maria Luisa Vezzali

Premio Bologna in Lettere 2023

Sezione C (Poesie singole inedite)

Nota critica su Marilena Cataldini

Una lunghissima giornata

 

 

«Se ciò che sarebbe stato distrutto in paradiso era distruttibile, allora non era decisivo; ma se era indistruttibile, allora viviamo in una falsa credenza» scrive Kafka in uno dei suoi indimenticabili Aforismi di Zürau. Un Kafka che si ritrova esplicitamente evocato nei versi di Marilena Cataldini risultati finalisti al premio Bologna in Lettere 2023 tanto all’inizio del primo movimento – dove una «busta di plastica» rovescia d’acchito su chi legge una «folla di oggetti sfrenati», tra cui «un insetticida per blatte, buono / contro ogni metamorfosi letteraria» –, quanto ancor più incisivamente all’inizio dell’ultimo movimento, dove alla busta dell’anonima tatuata dell’incipit fa da contrappeso la «borsa di pelle nera» di un lui che versa «sul tavolo / i dattiloscritti del processo a se stesso». Come mette in evidenza Agamben in K., infatti, nell’ottica dello scrittore boemo ogni essere. umano intenta un processo calunnioso contro di sé («Il tribunale non vuole nulla da te: ti accetta se vieni, ti lascia andare se te ne vai»; «Il tribunale non ti accusa, non fa che accogliere l’accusa che tu fai a te stesso»). Ma a uno strato più profondo una «schiena etica» à-la-Kafka sostiene tutto il testo con una qualità giuridica, ben confacente alla professione dell’autrice-avvocato-poeta, che si manifesta come compassione nei confronti del tempo dell’umano. Perché è di tempo che Cataldini, appunto, ci parla: di Una lunghissima giornata, scandita nei tre momenti del “Mattino”, del “Pomeriggio” e della “Sera, una giornata che – iniziata alle ore 12.21 del 17 marzo 2022 – alle 19.30 del 27 luglio non è ancora terminata, e infatti manca la “Notte”. Una giornata di individui singoli e soli, impigliati «nelle segrete / dei codici a barre», intenti a riporre «gli oggetti, / gli impegni, i figli nel posto che gli è abituale», a divincolarsi «fra i ponteggi» delle ore, presi nella piega di un tempo curvo che è paradisiaco anche quando mostra la sua faccia infernale, il suo rumore di ferraglie, la sua tagliola stritolante di cemento. Dentro al midollo ci è incistita un’«ansia del tempo», ma non ostacola l’epifania di un «punto del giorno» che è bolla, zattera, quaderno. Il nostro parlare sosta «all’ingresso del senso», con la stessa postura dell’uomo di campagna davanti alla Legge, creata per noi e quindi inaccessibile, alfabeto solo nostro e quindi impronunciabile che scivola nel «vuoto fra i denti». Come della scrittura, così del corpo, sospeso sul vuoto, ma «fatto di radici». E «tutto si sfarina e si riaggrega» scalzando la distinzione classica tra naturale e culturale, secondo l’auspicio che Gustav Sjöberg declina così: «Un altro modo di comprendere la materia sarebbe, approssimativamente, trattarla come una produzione di infinite, innumerevoli forme entro un incessante movimento di decomposizione e composizione, dissoluzione e ricomposizione. Concepita in questo modo la materia non sarebbe più un substrato passivo», bensì «semplicemente il processo di autogenerazione incessantemente differenziato che è proprio della natura». Un circuito tra lievitazione e fame, potenza e atto, passato e futuro, vita e sogno, urlo e silenzio che possiede la spregiudicata assertività del teatro e quindi impone di «vedere, vedere». Vedere ogni contraddizione: le «scarpe spaiate», i «muri di calce» così santi quando riflettono il sole, il «chiodo di ferro» che per una volta può scordare la crocifissione e lasciar appendere il cappello. E, se manca la “Notte”, è perché la visione sbatte contro il «nero / assoluto» che attende, il buio che copre «il rischio del vero».  Ma anche perché nell’«oscuro» c’è tutto, così reale che si può toccare con mano. Niente chiede di essere vivo più della cenere e alla fine non resta che cedere all’indistruttibile dentro di noi, a una resurrezione immaginale che ci darà ali, non dure come «ossa», né labili come «cera», ma impastate di una «materia sconosciuta», acquistabili con una «tecnica nuova». (Maria Luisa Vezzali)