Premio Bologna in Lettere 2023 – Nota critica di Nerio Vespertin su Giuseppe Rizza

Premio Bologna in Lettere 2023 
 
Sezione B ( Raccolte inedite) 
 
Nota critica su Giuseppe Rizza
 
Frame
Segnalazione di merito
 

“Fra tutti gli oggetti i più cari/ sono per me quelli usati […] Sono oggetti felici/ penetrati nell’uso di molti”.

Seguendo questa dichiarazione di Bertold Brecht, il tema delle cose di uso comune è divenuto man, mano un tema ricorrente e caro alla poesia contemporanea. Gli oggetti che più usiamo e che più ci rappresentano, metafora della società del consumo e della produzione in serie, smettono di essere mera materia e si caricano di un significato intrinseco, fino a diventare sineddoche delle nostre abitudini e nevrosi. Gli oggetti ci accompagnano nella nostra crescita, si fanno portavoce della nostra disperazione e, occasionalmente, possono offrirci un’inattesa speranza di fuga. Gli oggetti sono una parte di noi e, per proprietà commutativa, anche noi finiamo per diventare una parte di loro, nascondendoci e smarrendoci dietro al loro abuso.

Nelle poesie di Giuseppe Rizza, le cose di uso comune assumono il ruolo di protagoniste, offrendosi come mezzo per raccontare l’esperienza umana in termini semplici e autoesplicativi. Raccogliendo sigarette, libri, cd e dvd, ma anche messaggi dentro bottiglie, palloncini e bicchieri, il poeta riesce a delineare la mappa di un’esistenza irrequieta, erratica, fatta di amare rivelazioni e di una caparbia volontà di raccontare il proprio vissuto. Nei versi si assiste alla constatazione della realtà secondo un principio di verifica dell’essenziale: ogni oggetto viene ricondotto a un suo predicato verbale semplice, capace di chiarirne uso e significato. È così che la noia viene definita come “una bibita sgasata”, il passato come “una melagrana” e il ridere come “antidoto alle lacrime”. Il valore d’ogni osservazione suona come una dichiarazione perentoria, come un colpo di scalpello che taglia la materia in modo inequivocabile. Man, mano che si prosegue in questo compito di verifica della realtà, attraverso la spiegazione degli oggetti di uso comune, trova conferma l’impressione iniziale che si tratti di un’operazione necessaria e sufficiente a circoscrivere la vita entro uno schema pedagogico, al pari di quegli esercizi usati dai bambini per imparare a riconoscere le cose. È per questo che i numeri di telefono sono “fatti per chiamare durante la notte”, le confidenze vanno “rivelate solo a perfetti sconosciuti” e i cuori “vanno lucidati fino a renderli specchi”.

Ma gli oggetti non sono mai solo oggetti. Il gioco di confronti e verifiche che ha luogo nei versi di Rizza, serve a denunciare un senso ineluttabile di perdita. O meglio: di perdita del senso della realtà. Con una semplicità disarmante, il poeta fa scivolare il punto di vista dalle cose che circondano le nostre vite all’intimo del nostro vissuto, raccontando di piccoli grandi drammi, senza però rivelare a pieno la profondità della disperazione. Infatti, la grande ellissi di queste poesie è la coscienza umana: il senso c’è, ma si nasconde in dettagli marginali, nelle piccole sbavature sui bordi del foglio. Mai, neppure una volta, il poeta cede alla tentazione di banalizzare la sua esperienza, raccontandola in modo didascalico o cronologico. La scena rappresenta sempre il risultato delle azioni dopo che queste sono accadute e non rappresentano mai il loro svolgimento effettivo: complici una predilezione per le forme riflessive e per i participi, gli eventi raggiungono il lettore con la rassegnata sorpresa di rivelazioni tardive. Una forma di saggezza inutile, sebbene matura e pacata, traspare ora dall’uso di un infinito, ora dall’uso di termini cari alla psicanalisi. Come quando la cornetta dei telefoni “ha una natura possessiva”, il finale “non sempre accade” o il peluche si chiama “oggetto transazionale”.

Proseguendo lungo questa sequenza di assiomi elementari, in parte espressi puntualmente e in parte rappresentati con stile impressionistico, esauriente pur nella sua incompletezza, il vissuto si contrae e si raggruma in pochi momenti emblematici, che per effetto della sintesi, finiscono per rappresentare più di quello che ci si aspetterebbe. Secondo questo principio, una colazione in famiglia, fra abbondanti carichi di zuccheri e vuoti di comunicazione, diventa anche lo specchio di tragedie scolastiche, pianti fra le pareti di bagni pubblici e dolorose separazioni di genitori. Oppure la descrizione di una torrida estate in Arizona, con le sue corse in bicicletta e il ghiaccio dei distributori automatici, diventa lo spaccato di una classe sociale annientata dal tedio.

Compagni fedeli e incoscienti del dramma umano, sono sempre loro: gli oggetti d’uso comune, che si affacciano puntuali, spiegando e consolando. Come gli occhiali che “correggono punti di vista”, i carrelli del supermercato, definiti come “insensibili alla solitudine” o come i registratori di cassa, che per contrappasso irridono i nostri drammi con l’ottusità dei loro calcoli economici. Qualunque cosa succeda nel campo visivo di ogni poesia, loro sono sempre lì, reperti moderni di una nuova preistoria, dove l’umanità sembra semplificata a stato di tribù alienata, incomprensibile. Non è un caso che le personificazioni proposte siano spesso banalizzanti, riducendo i sentimenti e i valori morali a elementi usa-e-getta: come l’amore, che “si consuma come il latte a breve conservazione”, come i portafogli che radunano germi e l’umanità, che “va persa per esclusivamente per essere ritrovata”. Rizza ascolta pazientemente il silenzio assordante che riecheggia nei nostri gesti, ormai svuotati di senso, per farsene portavoce, con versi monotoni e rapidi, da leggere senza tirare il respiro.

Con un ritmo serrato, eppure all’apparenza casuale e distaccato, il poeta si avvicina poco a poco al cuore della sua realtà, a quel momento di realizzazione improvvisa dove tutto appare perfetto e ben bilanciato: un luogo comune come una stanza o un vecchio tavolo in formica bianca, dove sedere e far sciogliere il freddo dell’incomunicabilità. Ma se si crede di poter scoprire qualche rara verità universale, una chiave di volta magica, capace di aprire tutte le porte del mondo, ci aspetta un’amara delusione. Il poeta lascia intuire che non esistono grandi verità intramontabili nel nostro mondo: ogni cosa è temporanea e limitata. La verità è diluita e somministrata solo in poche gocce, così come la felicità e il senso di appagamento.

Tuttavia non si tratta mai di situazioni esclusivamente personali e autoreferenziali: il poeta mantiene sempre la sua sensibilità spalancata verso il mondo ‘esterno’, ovvero quello specchio rovesciato dove le tendenze individuali si riflettono nei complessi bilanci geopolitici globali e le partite di scacchi si traducono in guerre epocali. È la vita di tutti quella che viene raccontata, sfogliandone le pagine con un senso distaccato e amaro, fra Sartre e Gozzano, fra esistenzialismo e superficialità.

O come lo stesso Rizza ammette: lasciando l’essenziale e concedendosi al superfluo. (Nerio Vespertin)