Premio Bologna in Lettere 2020 – Nota critica di Loredana Magazzeni a Massimo Rizza

Premio Bologna in Lettere 2020

Sezione C (poesie singole inedite)

Massimo Rizza, Non ancora corpi – Finalista

 

Scrivere è individuarsi, tirare le fila dell’esistere, venire al mondo, assoggettare cosmogonie di pianeti, piegarle a una definizione e a una forma. Questo sembrano disvelare i testi di Massimo Rizza, estrapolati per Bologna in Lettere dalla raccolta inedita Non ancora corpi, sulla scia dell’altra sua silloge, Il veliero capovolto, che nel 2016 vinse il premio Opera prima, ideato da Ida Travi e diretto da Flavio Ermini. Non ancora corpi, ma nebulose, proto-pianeti in via di conformazione stellare, le parole della poesia si insinuano sulla carta invitandolo, come operazione preliminare alla scrittura, a situarsi nel mondo, a individuare un posizionamento.

Ecco che allora egli evoca, come nel procedere poematico degli antichi, le coordinate terrestri e celesti di una navigazione possibile, Scorpione e Gemelli, che lo guidino fuori dal suo “rintanarsi tra le parentesi”, e non da solo, ma in quel comune “essere pensanti e un po’ morenti/ sospesi nel pulviscolo di un presepe del cielo”.

Ed è chiaro allora che questa pluralità evocata è anche un posizionamento di comunità, di umana prossimità, in cui è necessario a ciascun vivente accostarsi all’altro, pur nella individuale solitudine: “situarsi per stringersi vedenti gli uni agli altri/ bianchi e soli come tagli nella tela del nulla”. In questa condizione plurale, visiva e plastica, ma anche linguistica e formale, i corpi trovano una definizione, che li individua, a differenza delle stelle e dei “corpi celesti” “nati senza forma”.

Ecco dunque che la forma che attaglia i corpi umani e non quelli siderali è proprio la parola, la parola che il poeta cattura e irretisce come da una “cometa del dire/gobba di luce sui corpi silenziosi”, nata da “una luna gravida”, la parola che si fa punto fermo, nome, scrittura dettata dal desiderio.

Il desiderio è ciò che muove l’essere, come ben sanno i poeti, da Dante a Patrizia Vicinelli, e Venere è testimone del desiderio che prende forma, desiderio che sguscia come “albume di stelle sotto il guscio lunare”, fra le mani del poeta in attesa, fabbro forgiatore di linguaggio, come scriveva ancora Dante.

Nella esposizione dei primi tre testi, Rizza predispone l’impianto generale del suo procedere poetico, in un’opera che diventa proemio e sfida alla possibilità/impossibilità, per i contemporanei, di dire con andamento epico gesta che sappiamo possibili solo come testimonianza, impegno, responsabilità del poeta fra i perigliosi e ancora non attraversati mari della conoscenza del ventunesimo secolo.

(Loredana Magazzeni)