Premio Bologna in Lettere 2020 – Nota critica di Francesca Del Moro a Giorgio Papitto

Premio Bologna in Lettere 2020

Sezione C (poesie singole inedite)

Giorgio PapittoIl tempo dell’addome – Finalista

 

 

Le tre poesie di Giorgio Papitto si confrontano con i temi universali della morte, del lutto, del ricordo nonché della crescita personale che questi segnano e problematizzano.
E lo fanno attraverso una frammentazione metrica e sintattica – predisposizione in comune con le radici, come si suggerisce in un verso – che si manifesta nel ricorso a un’alternanza quasi paritetica di pieni e vuoti, consistendo le poesie largamente in frasi brevi disposte in distici o strofe di un unico verso, a volte coincidente con una parola. Questa scansione franta e serrata in certi casi si ammorbidisce grazie alla presenza degli enjambement che movimentano il ritmo.
La frammentazione formale rispecchia quella della coscienza da cui affiorano impressioni giustapposte riguardanti principalmente il passaggio del tempo e in particolare la dimensione del lutto e il suo estendersi ad abbracciare tempi e spazi esteriori e interiori, il suo evolversi a modificare la vita di chi resta.
C’è un parallelismo costante tra i cicli naturali e l’avvicendarsi delle stagioni da una parte e l’esistenza umana con le sue fasi dall’altra.
Il tumore del nonno è rimasto impresso nel giardino dove i suoi cari si sono distesi probabilmente per sfogare il dolore, ed è possibile riportarlo alla luce aprendone gli organi come se il giardino stesso avesse un corpo. La famiglia afferrandosi alla terra ne ha tratto qualcosa per sé: il muschio per il presepe del padre, mentre la madre ha attinto dalle radici la predisposizione alla frammentazione. Se il lutto nel suo ripresentarsi segue il ritmo della morte di un albero, viceversa l’età del prato si può misurare sulla base della morte delle persone (lo stesso prato, un decesso fa), mentre il passaggio delle stagioni, tra le quali viene nominato esplicitamente l’inverno, corrisponde alla crescita delle generazioni e le foglie di pesco diventano portatrici del nuovo.
Il lutto impregna di sé la casa e il giardino, si allarga a evocare altre memorie e a occupare i pensieri dell’intera famiglia, si manifesta attraverso sensazioni diverse: tattili, come le trame morbide del muschio (sottolineate dal verbo onomatopeico procacciarsi), e olfattive, come l’odore peculiare della casa della nonna, l’etanolo usato come terapia per i tumori epatici che la caratterizza distinguendola da ogni altra casa in sé priva di odore.
Nell’ultima poesia, la percezione dominante è quella visiva, che però sfuma nella suggestione indistinta della bellezza della defunta nel pomeriggio del funerale. Ed è come se la morte la fermasse per sempre, come il chiodo espressamente nominato, in una compiutezza di aspetto ed espressione (commossa) che è in fondo quella che l’io poetico confrontandosi con le dinamiche del lutto sembra inseguire, specie nel terzo componimento che prefigura un faticoso percorso di crescita personale.
C’è una sorta di lotta che emerge da questi versi: una lotta per trovare una strada definita, dare un ordine agli accadimenti – in particolare le perdite – che segnano i momenti di passaggio della propria vita. Un rovello espresso tra l’altro da due domande “Il giorno fa un compasso. Chi sono io che non ne percepisco il verso” e “Come termino questa storia”, ripetuta per due volte, due domande che, in assenza del punto interrogativo, suonano ambigue e possono essere percepite al tempo stesso come affermazioni. (Francesca Del Moro)